Qualche settima fa parlando con una amica consulente del rapporto fra il luogo di lavoro e le persone che lo vivono (dirò più avanti chi è questa amica e di cosa si occupa), mi sono trovato a ripescare nella memoria il contributo di un altro amico personale (serve avere amici; altroché!).
Si tratta di una bella tesi che si è avvalsa pesantemente dell’apporto di Marc Augé, e della sua concezione di “non luogo” come contrapposto a quelli che lui chiama i luoghi antropologici.
Marc Augé (http://it.wikipedia.org/wiki/Marc_Aug%C3%A9) è etnologo e antropologo francese che ha affrontato la questione della surmodernità intesa come deriva dell’eccesso dei tratti della postmodernità: in estrema sintesi le tecnologie che hanno ampliato a dismisura le connessioni informative, promuovendo una globalizzazione dei media senza reali centri politici decisionali.
Nel quadro di questo, articolato, pensiero, Augé introduce un neologismo nonché categoria antropologica, quale appunto: non luogo.
Il non luogo ha la caratteristica di non essere identitario, relazionale e storico. In sostanza tutte le categorie che fanno di un luogo lo spazio di vita di un gruppo di persone.
La mente ha corso velocemente in direzione dell’organizzazione, che come credo Augé confermerebbe, si definisce a pieno titolo come luogo antropologico.
Si tratta di uno spazio decisamente identitario, presentando tutti i livelli di interazione dell’uomo con l’ambiente: gli artefatti, la catena delle interazioni e dei ruoli, gli obiettivi dello stare insieme (diremmo mito fondatore).
Vi troviamo certamente la componente relazionale, che definisce le dimensioni di profondità e ampiezza dell’organizzazione. La cultura organizzativa, in sostanza.
Si tratta inoltre di uno spazio caratterizzato da narrazione storica. Conosciamo le storie che alimentano le dimensioni identitarie dell’organizzazione, racconti di battaglie vinte, crisi affrontate, persone che hanno in momenti particolari assunto ruoli fondamentali. E tutta questa narrazione si palesa anche nella realtà fisica dell’organizzazione, dove effigi, fotografie, artefatti rimembrano a tutti il senso del divenire che l’organizzazione vive.
E allora ho pensato: “l’enterprise 2.0, con le sue piattaforme informatiche, le modalità comunicative virtuali, le chat, i blog, le wiki, sono un luogo o un non luogo dal punto di vista di Augé e della sua chiave di lettura?”
L’autore evoca come non luogo principe, e campione negativo della post-modernità, il centro commerciale. Questo non produce identità in quanto di fatto è un luogo di passaggio, nel quale le interazioni fra le persone sono minimali, e molta parte della comunicazione è rappresentata dai “cartelli”, impersonali strumenti di informazione ad una via (per una critica diretta sulla questione dei centri commerciali leggere: Lazzari & Jacono, 2010). Le persone non producono una dinamica fra loro sufficiente a “creare” quell’ambiente.
Ma così non è nelle piattaforme social. Non c’è forse una spinta cosciente a creare un senso identitario (d’altra parte neanche nelle organizzazioni è così), ma di fatto le interazioni diventano relazioni in ragione delle tematiche che si affrontano. Le relazioni si costruiscono in ragione delle preferenze e affinità che in modo emergente e spontaneo si articolano. E la storicità si esprime attraverso il ritorno continuo su argomenti che hanno suscitato interesse, che diventano tante puntate di una storia che si va scrivendo.
Questo in generale sulle piattaforme social, ma ancor di più io credo su quelle enterprise 2.0, dove le tematiche sono più focalizzate dovendo parlare strumentalmente di obiettivi, processi, attività, ma parlando in ultima analisi di “noi”.
Ancora quello che fa da discriminante mi pare che sia la dinamica di conversazione che agisce su tutti gli ambiti che l’uomo vuole far diventare propri.
Questa nuova categoria di luoghi antropologici virtuali (dove virtuale non è “non reale”, evidentemente), deve essere considerata appieno nelle implementazione di progetti 2.0 nelle organizzazioni. Di nuovo mi trovo a dire come non si tratti di un mero update tecnologico, l’introduzione di un ESN (enterprise social network).
In questo nuovo “luogo” si gioca, contutta la potenza dell’evento umano, la partita dell’identità, delle relazioni e della narrazione storica dell’organizzazione, e come tale deve essere seguita e facilitata.
Come tutti i luoghi si devono generare le condizioni di “abitabilità”. Pensate ad una piazza: deve essere facilmente raggiungibile, offrire spazi ampi di libera circolazione, ma anche qualche bar e negozio. Il resto lo fanno le persone con la conversazione continua.
Un responsabile progetto di e20 èarte quindi dalla necessaria anlisi della struttura identitaria organizzativa, di una ben articolata mappa delle relazioni interne, ed un recupero sostanziale delle narrazioni che l’organizzazione ha nel tempo prodotto, per essere in qualche modo riprese su questo nuovo luogo antropologico.
Non è un lavoro per informatici, ma davvero multidisciplinare con un forte focus sull’organizzazione e le persone.
Per riassumere credo fermamente che vi sia un grande rischio nel promuovere l’enterprise 2.0 come portato della nuova tecnologia che avanza, senza supportarne l’implementazione con parole chiave più antropologiche legate appunto all’identità, le relazioni, la storia, che sono il segno dell’umano che scrive continuamente l’esperienza organizzativa.
Una breve nota sull’amica che ha generato questa riflessione.
Maria Rosa Ambroso è un interessantissima professionista che ho conosciuto in un breve workshop tenutosi nella scorsa edizione delle Smau a Milano.
In uno speech dava conto del proprio approccio consulenziale che lavora sul tema dell’identità aziendale, della motivazione ed engagement attraverso degli interventi sullo spazio fisico di lavoro.
La costruzione non è ingegneristica o meramente funzionale, ma attraverso la conversazione con le persone implicate, si ricostruisce il senso che queste danno allo spazio, oggetti, per generare con loro quello futuro.
Ho trovato questa declinazione molto illuminante, e di grande forza proprio perché il luogo non è neutro nella vita delle persone, e quello di lavoro non sfugge a questa dimensione di investimento.
Consiglio una lettura spassionata del suo blog (http://www.camaleonte.eu/posts).
10 risposte
Gran bella riflessione, condivisibile appieno 🙂
Sono d’accordissimo con tutto quello che è scritto. Un paio d’anni fa ho scritto un piccolo saggio dal titolo Il Mondo Vitale di Facebook che cercava di sviluppare alcuni concetti molto in linea con le tue riflessioni. Per chi fosse interessato: http://www.marcominghetti.com/opere/altre-pubblicazioni/facebook-come-mondo-vitale/
assolutamente d’accordo: la tecnologia è semplicemente il fattore abilitante, un mezzo e non il fine.
L’obiettivo dovrebbe sempre essere mirato ad un vero rinnovamento dell’azienda partendo dal modo di essere/fare (organizzazione), di presentarsi/vendere (marketing), di gestire la propria clientela (supporto, CRM). Quando questo “incastro magico” avviene i risultati sono reali, concreti e, soprattutto, misurabili
Certo, non è un compito facile..ecco perché – come scrive MarkMcDonald – “Every organization is social, but few are social organizations”
http://blogs.gartner.com/mark_mcdonald/2011/10/10/every-organization-is-social-but-few-are-social-organizations/
Decisamente interessante, anche complesso. Invita alla riflessione. E’ curioso come una società che si potrebbe definire materialista, sta finendo per distruggere proprio la… materia. E le imprese fanno la loro non-parte. E’ il successi del nichilismo, invece che finire nel big-bang al contrario, una grande implosione, finiremo tutti virtuali?
Interessante il saggio di pura antropologia Il profumo dei limoni che consiglio.
ciao
Paolo
Post molto interessante e non banale. Mi porta a riflettere sull’assenza dei luoghi antropologici all’interno di alcune organizzazioni, vissute conseguentemente come “non luogo”.
Grazie per gli spunti.
Ciao
Lucia