L’organizzazione conversante

Non è inusuale che il consulente/antropologo, si trovi ad avere a che fare con dei buchi di senso molto forti fra ciò che il suo referente in azienda gli racconta e quello che vede, e sperimenta sulla propria pelle, attraversando i corridoi dell’azienda.

Sappiamo dai contributi degli ultimi 30 anni che la cultura organizzativa si offre a chi la scruta coma un sistema multistrato che presenta al suo esterno i cosiddetti manufatti che “ornamentano” l’ambiente circostante quella specifica comunità (ad esempio: arredamento, abbigliamento, ma anche un certo linguaggio piuttosto che un altro). Più in profondità c’è una dimensione nella quale in qualche modo si formalizza ciò che si è (o si pensa di essere). Le aziende sono piene di documenti, policy, codici etici, norme di comportamento che richiamano alcuni valori ritenuti cruciali.

Più in fondo vi è quel corpo informe di saperi, codici, non verbale, che genera allineamento fra i componenti nel modo di percepire il mondo e perimetra la comunità che ne sta all’interno.Quest’ultima dimensione sembra non essere nella disponibilità dei membri del gruppo, tanto che se il consulente chiede agli stessi di descriversi fino a quel livello di profondità, questi propongono mappe molto diverse fra loro.

Questo è un tema che mi ha sempre inquietato, perché se è vero che i membri non dispongono di questa consapevolezza profonda, è altrettanto vero che i “visitatori” nell’organizzazione, come corpi estranei, colgono questa dimensione soprattutto nei buchi di senso, appunto, fra ciò che l’organizzazione dice di se e quello che in effetti pratica.

Una delle ultime esperienza in questo senso l’ho avuta anche poco tempo fa entrando in una azienda che promuove importanti valori (e chi no lo fa oggi), quali la dimensione strategica del lavoro in team, la centralità del fattore umano nelle relazioni organizzative, la disponibilità assoluta dei responsabili ad un rapporto diretto e immediato con i collaboratori.

I buchi di senso si sono mostrati molto presto, quando nell’attraversare i corridoi di un dipartimento non ho potuto fare a meno di notare come in un ora centrale della giornata lavorativa (le 11:30) le 4 sale riunioni fossero deserte; come le porte degli uffici fossero tutte chiuse e come il fattore umano, rappresentato da un dipendente dell’azienda seduto accanto a me in sala d’attesa dell’HR, abbia prima atteso 15 minuti per essere considerato dalla segretaria, che poi ha fatto passare me e rimbalzato lui ad altro giorno per un colloquio.

Ora, aldilà delle considerazioni etiche, credo che la questione sia la poca dimestichezza che le organizzazioni hanno con la conversazione, in generale, e con quella su stessi in particolare. Le tribù pre-civilizzate che l’antropologia chi ha abituato a considerare, hanno quasi sempre un sistema di racconto epico al proprio interno, attraverso il rito della rievocazione che l’anziano fa intorno al fuoco.

Non che nelle imprese manchi, ma sembra spesso essere un altro artefatto costruito ad hoc avendo esso stesso un obiettivo immediatamente di business. Quindi raccontare di un progetto vincente, di un problema risolto, di un’ idea innovativa, è come vendere a qualcuno un prodotto intangibile. Si muovono i dipartimenti di comunicazione interna che acconciano, imbellettano il messaggio e poi lo veicolano attraverso i canali opportuni.

La comunità aziendale, però, non può essere intesa come un target, essa stessa deve partecipare alla costruzione del messaggio se vuole sentirlo proprio.

L’abilitazione di spazi di racconto, di conversazione, di scambio è necessaria perché diversamente può capitare che i membri si “raccolgano intorno ad un altro fuoco” per stare insieme e parlare di se (non dimenticherò mai più l’esempio di un’azienda che poco sensibile a questo tema, anzi contraria all’idea stessa che le persone potessero parlare fra loro in questi termini, si sia trovata con la costituzione di un gruppo informale con gli stessi membri su un social network).

Di tecniche di business, strumenti di efficientamento, modelli di controllo, le aziende sono sature, a mio avviso. Ma manca la componente di analisi del sistema sociale, che l’organizzazione è. Io auspico una managerialità più focalizzata su questo ambito, capace di costruire spazi, più che strumenti operativi (le persone sanno fare questo meglio degli analisti organizzativi), di generare conversazione permanente più che flussi comunicativi.

Non di meno oggi come consulente sono chiamato moltissimo dai clienti a supportarli sulla questione dell’engagement employee, e non nascondo un qualche imbarazzo nel dovermi rapportare con aspettative di tipo metodologico che riconducono quasi all’idea di comportamentismo: “fai una serie cose e ottieni engagement”.

Io ripropongo però continuamente questa convinzione circa il fatto che l’engagement non è l’obiettivo finale, ma il processo stesso, e che questo si stimola garantendo gli spazi di conversazione fra le persone in azienda.

condividi "L’organizzazione conversante" su:

5 risposte

  1. Un articolo dove si sottolinea un comportamento fittizio che sempre più spesso le aziende adottano.
    Faccio credere agli stakeholder che condivido e perseguo certe pratiche ma alla resa dei conti l’humus aziendale formato dai dipendenti non viene nemmeno preso in considerazione… Concordo sul contrasto processo\risultato! Esiste il processo di employee engagement non un risultato di engagement.
    Ogni organizzazione deve essere brava a strutturare il proprio processo, studiandolo e progettandolo ad hoc… I risultati?? Dipendenti e collaboratori felici di alzarsi la mattina per andare a lavoro, onorati di far parte dell’organizzazione, sostenitori, autonomi e disponibili a compiere il famoso “miglio in più”…

    Grazie Alessandro! A presto…

  2. “La comunità aziendale, però, non può essere intesa come un target, essa stessa deve partecipare alla costruzione del messaggio se vuole sentirlo proprio.” Quanto sono vere queste parole!
    Anche a me succede di entrare in azienda e sentirmi raccontare quanto sono forti i legami e quanto gruppo c’è. Ma andando a sentire le “voci di corridoio” ti rendi conto che la visione del titolare, non è quella vera. Diciamo che ha idealizzato un po’ la situazione. Creare gruppo non lo si fa con un corso di Team Building! Ci vuole tempo per cambiare comportamenti e cultura aziendale.

  3. Ciao Alessandro,
    scrivi sopra “Io ripropongo però continuamente questa convinzione circa il fatto che l’engagement non è l’obiettivo finale, ma il processo stesso, e che questo si stimola garantendo gli spazi di conversazione fra le persone in azienda”.

    Nella mia esperienza, in particolare negli ultimi 4-5 anni spesi ad aiutare le organizzazioni a guardarsi dentro, a connettersi con loro stesse prima ancora che con i clienti, a riconoscere in modo trasparente e meritocratico l’enorme potenziale degli individui aldilà della loro posizione gerarchica, a sviluppare modalità più agili, reattive, emergenti di relazione con il mondo, è questo il messaggio chiaro da dare.

    L’engagement non può essere un after-thought, un ornamento, un esercizio di comunicazione, una ciliegina. E’ proprio grazie a questa impostazione che gli individui si sentono sempre più alienati, sempre meno motivati, costantemente “presi in giro” dai propri capi che sembrano attratti più dall’effetto circo che da reali meccanismi di ascolto e coinvolgimento.

    Per ingaggiare serve fare riconoscere, ascoltare, portarsi allo stesso libero, aprire e specialmente sviluppare insieme. Come scrivi tu, e’ il processo intero, i messaggi, le sue attività, i suoi ruoli che creano engagement non la comunicazione di questo processo.

    Aldilà delle tante chiacchiere, purtroppo (o per fortuna), molte aziende sono ancora estremamente lontane da logiche inclusive di coinvolgimento, innanzitutto perché non hanno capito che ormai non esiste alternativa.

    1. grazie del commento Emanuele. Aggiungo solo che io “sento” sempre più questa domanda di partecipazione interna. Io noto che anche le aziende più sensibili circa il tema dell’engagement si pongo troppo spesso in una relazione “parentale” con gli employees sul modello genitore-figlio. Ma un figlio avanza richieste, fa capricci, aspetta che gli si concedano “doni”. Va superato questo modello per guadagnarne uno più “adulto”, dove le persone si relazionano conversando sugli aspetti della vita organizzativa.
      Io auspico che le direzioni HR offrano un approccio teso a facilitare questa dimensione, più che a “governare”. Twittavo qualche giorno fa che:”un progetto e20 non è una attività tesa ad aggiungere, ma a togliere”. Direi quasi liberare…
      Ciao!