Qualche giorno fa ho risposto alla richiesta di una azienda cliente di trattare il tema della cultura aziendale, e di come, annoso problema, si può supportare un esperienza di integrazione fra due organizzazioni; due storie arriverei a dire (se interessa ne ho scritto qualche anno fa Qui)
Nel tempo ho cominciato a maturare un certo dissidio interno fra la tensione consulenziale di far parlare queste “culture” per riuscire a far trovare loro un punto di raccordo, ed una più orientata a farle guardare oltre questo cerchio ermeneutico.
In una immagine, che ho usato anche durante il talk: passare dal guardarsi negli occhi, al guardare insieme verso una medesima direzione.
Certo si potrebbero intendere come due fasi successive, e certamente lo sono. Ma il rischio è che su quella del guardarsi si stazioni troppo tempo fino a rendere incandescente il cerchio in cui poi si rischia di rimanere intrappolati.
Ma per arrivare a sostenere la necessità di praticare quello spostamento, nel tempo ho cercato di problematizzare la questione culture/cultura, intanto con me stesso.
La prima domanda che mi sono fatto è proprio: ma esistono veramente delle culture? Si tratta veramente di storie così lineari, pure, tanto da farci tirare un filo che va indietro dall’oggi al momento della “fondazione” di quella specifica comunità?
In effetti tutti risponderemo che certamente no, non si tratta di un solco senza sovrapposizioni, mescolanze, ibridazioni (sembrerebbe che nel nostro DNA, quello del Homo Sapiens, vi siano tracce di quello di Neanderthal…). Eppure, non credo che noi si capisca fino in fondo la dimensione ed il portato di questa dichiarazione di buon senso.
Il grande Prof. Ralph Linton amava aprire le lezioni del suo corso ad Harvard, leggendo un testo che a dir poco distrugge il mito della appartenenza ad una cultura, mostrando come sia evidente che nemmeno ciò che vestiamo, di cui ci cibiamo, ma anche le cose pensiamo, abbiano una origine netta; nemmeno predominate se è per questo! Ma poi teneva un corso proprio di antropologia culturale, segno che – mia deduzione – lui intendesse negare che vi fossero culture, ma non certo che noi si sia Cultura.
Si tratta di una distinzione concettuale molto potente, che riprenderò fra poco.
Per procedere nella mia parte destruens, ho poi citato alla platea un altro testo bellissimo: L’invenzione della Tradizione, di E. J. Hobsbawm e T. Ranger, i quali riprendono alcune delle più grandi icone culturali di alcune comunità, e mostrano come quei simboli non siano poi cosi tradizionali come pretendono di essere (lo sapevate che il Kilt come lo conosciamo non è scozzese, ma “inventato” da un Inglese, Thomas Rowlison, che ci ha costruito sopra uno “storytelling legato agli Highlander?).
Anche qui per dire cosa? Che le tradizioni, che sono la narrazione più forte delle culture, sapendo unire elementi materiali insieme ad una storia di valore, resa così simbolo significante, non sono ancorate a fatti originari, ma a mescolanze, qualche volta nemmeno del tutto in buona fede. Di nuovo ci portiamo via una consapevolezza: non sono tanto i simboli, gli oggetti, le storie specifiche che vanno trattate come significative, ma piuttosto la tensione dell’umano a produrre simboli, oggetti e storie che lo narri nel tempo. E se a qualcuno sembra poco…a me no!
Poi ho fatto anche un passaggio più biologico per dare corpo alla tesi che in fondo veniamo tutti dalla stessa storia evolutiva, e che le variazioni fisiche che vediamo e ci sembrano così profonde, in realtà misurano pochi decimali di percentuali sul DNA delle diverse popolazioni.
Qui ho poi provato ad introdurre una cesura fra due termini che, ad onor del vero, possono anche essere intesi come sinonimi. Ma io trovo ci sia una varianza forte invece.
Diversità vs Differenza:
Il primo termine sembrerebbe puntare ad una categoria ontologica, che descriverebbe un (s)oggetto per la sua natura intrinseca, e che lo rende quindi diverso da un altro. Si tratta di puntare lo sguardo sulle proprietà specifiche di quegli oggetti, e di notare come siano quindi diversi nella loro natura originaria.
Il secondo termine invece, di gergo aritmetico, sembra farci puntare lo sguardo sullo spazio che c’è fra quegli oggetti messi in comparazione. Ciò che stiamo guardando ora non sono più le proprietà degli oggetti, ma la linea che li tiene insieme come possibilità. La differenza così diventa proprio questo: uno spazio di possibilità da abitare di significato comune.
E’ il pensatore/sinologo François Jullien, a portare il nostro naso proprio su quello che lui chiama scarto, il “tra”, fra le supposte culture in relazione. In quel limen, soglia, sta il vero cuore su cui si può operare, costruire Senso insieme.
Era un po’ qui che volevo in fondo arrivare quando dicevo all’inizio che serve uscire dal cerchio degli sguardi reciproci: tu sei tu…io sono io…io non sono te…tu non sei me…Un circolo estremamente vizioso e viziante.
Di qui l’epilogo del talk, teso a parlare del senso che ci tiene insieme, piuttosto che della storia che ci ha portato qui (senza la quale, va detto, non ci saremmo). Procedere dal riconoscimento reciproco molto velocemente verso il riconoscimento dello spazio che c’è da coprire insieme: creare Senso.
Altrove ho già scritto di come il termine Senso sia davvero gravido di declinazioni a dir poco suggestive:
la prima è quella di senso come significato. Cosa dico quando dico quello che dico?
la seconda è quella di direzione. Qual è il senso verso cui procediamo?
la terza è quella della radice comune con il sentire: cosa sto sentendo?
Così si potrebbe arrivare a dire che la relazione (fra individui, comunità, organizzazioni, società) è
quello che proviamo mentre andiamo in una direzione che per noi ha significato
Il tema più “tecnico” per noi HR risulta quindi essere come far spostare quello sguardo dalla storia scritta di ognuno, verso quella da scrivere quale noi? Come alleggerire i percorsi di merge culturale (che brutta quanto inutile locuzione questa…) della reiterazione continua della tradizione in favore di un contesto anche molto pratico di costruzione del fare insieme nel futuro?
Non scendo oltre sul piano operativo, ma credo che questo campo, questo “tra”, si possa alimentare con tante “tecnologie” organizzative, conversazionali, educative, a seconda dei contesti e dei casi.
Ma prima di ogni cosa si potrebbe riformare un pò il linguaggio, evitando di parlare di culture, in favore di biografie; assottigliando la narrazione delle tradizioni in favore delle esperienze delle persone presenti oggi, qui.
Che se ha ragione Wittgenstein e le parole di cui disponiamo “costruiscono” il mondo in cui poi viviamo, già questo sarebbe un grande salto quantico!