Teniamoci in contatto

“Luca!”
La voce arriva dalle mie spalle e si avvicina sempre più come un treno sulla banchina in stazione.
“Luca, ciao come stai?”
“Beppe, quanto tempo”
Ci scambiamo il solito cenno con la testa a quel metro di distanza entro cui ci fermiamo sempre da…da allora.
“Si davvero un sacco di tempo. Direi da prima del…”
“Addirittura?”
“Si, secondo me si”
“Hai ragione in effetti. Sono anni insomma.”
E’ strano come il ricordo di allora si sia così rarefatto, affumicato.
Il ritiro forzoso nelle case, il lavoro diventato remoto e virtuale, le linee rosse che si sono concentrate, poi allargate e poi spostate come alghe su un lago.
Gli uffici non si sono più veramente riabitati appieno da allora. Insomma, ci vai, ma per poche ora la settimana, per necessità più di allineamento sociale non del tutto sopitosi.
L’accelerazione che quell’esperienza ha dato alla digitalizzazione e robotizzazione ha finito per rendere davvero poco utile andare a lavorare in qualche posto. Qualsiasi posto. Anche le linee produttive ora sono controllate da macchine intelligenti che trasferiscono dati in tempo reale ad operatori che gestiscono tutto da casa. Il luogo di lavoro è insomma uno spazio più liquido di quanto lo abbiamo inteso fino a…insomma prima di allora ecco.
Eppure non è questo che mi colpisce. In fondo era prevedibile che mentre le relazioni di lavoro diventavano più “universali” in termi di ampiezza, i luoghi tradizionali diventassero meno cruciali.
Quello che mi colpisce siamo io e Beppe, come tutti intorno a noi, che parliamo ad una distanza che non calcoliamo più, ma che si pone in mezzo a noi come riflesso condizionato. Tipo il capannello di ragazzi alla nostra sinistra, messi in cerchio largo, che urlacchiano schiocchezze senza mai avanzare verso l’altro, per non rischiare di tagliare quello spazio che una volta avremmo pensato essere fatto di vuoto, ma che quell’evento ci ha insegnato invece essere abitato eccome.
Non so da quando ho cominciato a notare questi particolari. Nessuno sembra farlo in effetti. e neppure io ho avuto questa necessità fino ad ora. Si vive semplicemente incarnando dei gesti istintivi che sono nati come contingenti mentre ora sono prassi inconscia.
Beppe si sistema i grossi occhiali usando l’avambraccio. Cosa non semplice essendo quel pezzo di corpo meno versatile e sensibile delle dita di una mano. Ma d’altra parte le mani scoperte non vanno più sulla faccia per nessuna ragione. Troppo pericoloso diremmo.
Ma non è questo dato che pericolo non c’è in questo momento. Intendo nessun pericolo sostenibile ma di certo sempre potenziale.
Solo che le mani non toccano più con la naturalità di una volta, ne gli altri ne noi stessi.
“Sto bene grazie, e tu?”
“Ma, bene si. Stesso tran tran tutti i giorni. Ho una cervicale immensa ormai cronica dovuta al caschetto virtuale che usiamo per i meeting. Sai quando lo tieni indossato per dieci ore al giorno la tensione produce un effetto”
“Già. Hai sentito qualcuno””
“Si ho fatto una visita. Un casino perché lo scan virtuale non era compatibile con mio pc per cui ho dovuto scaricare altri programmi, a pagamento tra l’altro, ma poi ce l’abbiamo fatta. Insomma ho dodici sedute di robo-fisioterapia prenotate al centro di via Po’”
“Be ma almeno ci metti una pezza”
“Si. Senti e tu? Scusa se domando ma, stai ancora con Carlotta?”
“No. Ci siamo lasciati tre anni fa.”
“Ah ecco mi dispiace”
Vorrei dire “anche a me” ma la verità è che non lo so. Dopo di allora le priorità sono diventate così divergenti fra noi. Insomma l’idea di avere figli a quel punto mi sembrava così poco entusiasmante.
Ma anche la procedura ecco: la dichiarazione, il sistema di nano-vaccini, peraltro costosissimi, il parto cesareo a remoto, per non parlare della macchina per l’allattamento: quell’aggeggio antropomorfo, con fattezze da donna di metallo, messo al centro del salotto. Insomma, non lo so. Ma davvero non pareva più tanto entusiasmante.
D’altra parte ci abbiamo messo mesi per imparare ad usare la sex sensitivity suit. Certo non essendo fra le più avanzate tecnologicamente l’effetto non è proprio così reale, ma anche queste costano un occhio della testa. D’altra parte facevo fatica ad indossare un preservativo di lattice sul cazzo, figuriamoci uno pieno di bio connettori su tutto il corpo.
Insomma le cose si sono allentate a diversi livelli e vederla uscire con le valigie in mano non è sembrato davvero una catastrofe alla fine.
Uno starnuto soffocato nell’avambraccio ci fa girare tutti, mentre vediamo il giovane correre verso una delle tante cabine di sanificazione cilindriche disseminate per la città.
Non ci facciamo quasi più caso devo dire, anche se quel suono lo riconosciamo facilmente anche da lontano, così come il colpo di tosse anche quando è sommesso e mortificato nella gola, come si fa oggi.
“Insomma sai stavamo insieme da tanto tempo. Succede”
“Si vero. Io e Katia teniamo duro sai. Ne abbiamo passate tante. Dopo la morte di Betty…ti ricordi di Betty? La cagnetta che avevamo preso da cucciola?”
“Si come no certo. Povera, quanti anni aveva?”
“Dodici. Era con noi da tanto. Da prima di allora…”
“Mi dispiace, posso solo immaginare il vuoto che ha lasciato”
“Si è vero vuoto. Tanto più che con le disposizione del dopo di allora, non abbiamo più potuto prendere con noi un altro cane. Nessun animale domestico in effetti”
“Già…”
“Si…ma quest’estate abbiamo detto crepi l’avarizia e ci facciamo un viaggione in India!”
“Davvero? Bellissimo. Quanti giorni?”
“Dunque, abbiamo prenotato due chairtrips virtuali per venticinque giorni. Insomma sto giro vogliamo proprio godercela tutta”
“Caspita. Io non l’ho mai fatto, ma come funziona in pratica?”
“Allora prenoti questi due posti al augmented trip centre, e di fatto ci salti sopra ogni mattina dopo la colazione e l’assunzione di quel cocktail vitaminico che non so proprio dirti cosa contenga. Ti serve per non doverti alzare durante il giorno ecco. Ti giri le città in realtà virtuale avanzatissima, e poi la sera ceni nel centro dove hanno predisposto delle camere virtuali che simulano un ristorante locale con tanto di voci di gente nella via e cameriere autoctono. Dovrebbe essere intenso.”
“Immagino di si in effetti”
Gran bel paradosso questo. Prima di allora io e Carlotta abbiamo girato mezzo mondo zaino in spalla: africa, sud-est asiatico, quasi tutti i paesi del nord Europa. Poi però, anche dopo la riapertura delle zone rosse internazionali quasi nessuno ha ripreso a muoversi come una volta.
La tecnologia aiuta, ma non è alla portata di tutti. Così Beppe e Katia possono viaggiare non avendo bisogno di andare da nessuna parte mentre io mi accontento delle immagini 3D che mi sono rimaste di quelle avventure.
“Luca io devo scappare”
“Si certo. È stato un piacere vederti davvero. Che ne dici se ci beviamo una cosa insieme una sera? Se ti va prenoto in un posto non troppo lontano da qui. Serve farlo con anticipo perché sai con la capienza massima di dodici persone per slot di venti minuti bisogna organizzarsi per tempo. Ma è carino e pulito.”
“Si, volentieri. Senti ti scrivo a fine settimana così proviamo a trovare una data magari il mese prossimo. Ok?”
“Perfetto. Ciao Luca”
Il cenno della testa quando ti accomiati è diverso da quello dell’incontro. In quest’ultimo il mento si alza e si abbassa, come quelli stereotipati gangster siciliani che si vedevano una volta nei film. O quel gesto che facevamo da giovani prima delle generazione del “bella zia” venuta dopo di noi, che si abbracciava ovunque e con chiunque. Pratica sparita totalmente.
Mentre quanto ti lasci il capo disegna un piccolissimo semicerchio e la testa si ferma sull’angolo alto per qualche secondo.
Vedo Beppe allontanarsi velocemente e scorgo sopra la sua testa un orologio che dice: 20.15.
Devo scappare. Fra quindici minuti inizia la proiezione del film al cinema d’essai: danno un classico degli anni ottanta che non voglio perdere. Ma devo ancora settare gli oculus e scegliere il Virtual seats in sala. Non voglio ritrovarmi di nuovo vicina quella vecchietta petulante che commenta ogni scena del film.

condividi "Teniamoci in contatto" su: