Quando vieni chiamato a supportare un progetto di comunicazione interna abbastanza tradizionale come quello del lancio di un magazine interno, pensi che la tua expertise determinerà buona parte del “prodotto” finale. Poi entri in quella relazione che caratterizza lo stile del consulente antropologo e cominci a catturare alcuni elementi che il gruppo di lavoro ti consegna quando parla della propria organizzazione.
Dato che non riesco a trattare la comunicazione interna senza inquadrarla nel più ampio contesto che è l’esperienza organizzativa, i concetti di enterprise 2.0 con il loro portato social, mi sono “sfuggiti” dalle labbra non senza una qualche soddisfazione.
Il gruppo di progetto ha reagito rifasando lo strumento perché divenisse una vera voce interna della popolazione organizzativa, una sorta di storytelling book dove le persone potessero raccontarsi e raccontare il senso della loro presenza in quel contesto.
Il progetto è quindi diventato un’altra cosa: un più eccitante esperimento 2.0 in assenza di tecnologia abilitante (quasi un passaggio propedeutico mi viene da dire per stimolare quel mind-setting di cui le logiche e20 hanno bisogno per funzionare al meglio).
Gli effetti si sono immediatamente palesati durante la fase di brainstorming per la costruzione del menabò.
Questi sono gli assunti che il gruppo ha fissato come inderogabili:
- la rivista doveva rappresentare la cultura dell’organizzazione, e non essere uno strumento di comunicazione del management. Si è così rinunciato ad una struttura classica con editoriale del general manager ad apertura del magazine, rubriche su andamenti economico finanziari, contributi referenziali dell’organizzazione formale, per far emergere quella reale non gerarchica, comunitaria;
- le persone dovevano essere il centro nevralgico del “racconto”. Ha preso vita, per esempio, una rubrica di interviste che permette alla persona di raccontare la propria esperienza sul ruolo, ma anche di se, delle sue aspettative, delle sue caratteristiche umane. E ancora, un’altra rubrica che apre un faro sulla vita di un reparto, descritto dalle persone che lo “abitano”, contrappuntato dal punto di vista di persone di altri reparti che con questo hanno a che fare;
- l’uso del linguaggio “interno” sarebbe stato prevalente rispetto ad uno più generico e divulgativo. Alcune rubriche hanno quindi pescato a man bassa dal glossario comunitario (come ad esempio: “cosa c’è nella mastella” articoli descrittivi dei reparti; “asilo mariuccia” la parte amena di giochi; l’uso di sigle di prodotti che sono patrimonio dell’azienda, ecc…). La rivista non risulta quindi facilmente leggibile da esterni, ma non è mai stato questo l’obiettivo;
- l’incensurabilità dei contributi anche rispetto a tratti critici, per poi attivare elementi di interlocuzione, sempre sulla rivista, in una sorta di conversazione asincrona e sotto l’occhio di tutti (questo è forse il tratto di più alta connessione con le logiche 2.0: la conversazione sincera, aperta, che trova nello scambio visibile a tutta la comunità gli spunti per la sua composizione. Penso alla dinamica di un blog, per esempio)
La chiamata alla partecipazione si è sostanziata anche in un contest che ha accompagnato il lancio del “numero zero” senza titolo, dove ognuno è stato invitato a proporne uno messo a votazione per la scelta finale. L’obiettivo è stato quello di suggellare l’appartenenza dello strumento a tutta la popolazione come di un canale che da voce all’esperienza delle persone nella vita organizzativa.
Per finire il ruolo del gruppo di lavoro. Questo che si era inteso in via originaria secondo i canoni tradizionali il “gruppo di redattori”, ma si è presto trasformato in una sorta di team di antropologi a caccia di spunti, storie da far raccontare alle persone della grande tribù aziendale.
Quello che resta al consulente è un ulteriore esperienza della energia sommersa che la componente social sviluppa quando viene in qualche modo liberata. E di come questa chieda di essere messa in gioco per determinare un livello di partecipazione più convinta delle persone.
Propongo qui di seguito un breve intervista al communication manager dell’azienda, nonché team leader del progetto:
8 risposte
Come da mio recente posting su Facebook: “ordinary people whose achievements will surpass their grandest imaginations”…tuttavia, credo, il successo di di e20 nella comunicazione e crescita organizzativa è direttamente proprorzionale all’apertura mentale e la volontà di “ascoltare e mettersi in discussione” da parte delle componenti chiave del gruppo in questione. Diversamente, credo, il processo viene frammentato e rallentato fino ad esaurire il suo momento. Sono ottimista di natura, per cui sono certo sia solo una questone di tempo e perseveranza.
Grazie Alessandro per il commento.
In effetti il mindsetting è fondamentale per la buona riuscita di un progetto e20, e più in generale in un percorso di crescita organizzativa in senso collaborativo.
Nella mia esperienza devo dire che in molte occasioni quella formazione mentale non è stato il punto di partenza, quanto elemento stesso di crescita, se ben stimolato e facilitato.
In ultima analisi questi progetti di sviluppo necessitano la capacitá di coloro che li promuovono di inserirsi nell’intersezione che si forma fra la vocazione umana ad essere “social” e le tecnologie disponibili, siano virtuali o tradizionali. Cosi si puo determinare una nuova modalità di interazione organizzativa capace di fare superare gli ostacoli e creare il futuro dell’azienda. Tutti insieme!
ottima idea. Se mi mandassi una copia sarei contento 🙂
Ciao Alessandro, complimenti a te …. ma soprattutto all’azienda che ha avuto l’apertura per tradurre in realtà questa visione.
Anch’io ho avuto un’esperienza simile: dalla comunicazione top down dei valori aziendali è scaturito un social network interno basato sulle attività di volontariato e responsabilità sociale dei singoli dipendenti.
E’ riuscito solo grazie al forte appoggio della responsabile HR verso un CEO diffidente che, successivamente, visti gli ottimi risultati, è diventato uno dei main sponsor dell’iniziativa.
Il vero punto è riuscire a coinvolgere chi, in azienda, crede e scommette nel progetto.
Ciao. Hai ragione nel dire che l’azienda si è dimostrata ricettiva. Certamente il project leader si è approcciato in modo molto aperto, ed è stato disponibile a seguirmi quando ho cominciato a mandare messaggi (che coglievo dal gruppo in realtà) sulla possibilità di ridefinire il manufatto che avremmo creato.
C’è l’esigenza di spiegare cos’è la modalità collaborativa, perché in azienda di solito non è considerata come un alternativa al modello operativo classico. Ma quando riesci a trovare orecchie che ascoltano, le persone comprendono abbastanza in fretta il potenziale che ha questa forma di organizzazione.