I dati servono alle persone

Conversazione con Dino Pedreschi

Allo scorso #SASForumMilan ho avuto l’opportunità di fare una conversazione molto generativa con il Dino_PedreschiProf. Dino Pedreschi, studioso di Bigdata, analytics e docente all’università di Pisa. Per chi non lo conoscesse uno dei massimi esperti italiani in questo campo.

Si è reso molto disponibile così gli ho indirizzato una serie di domande.

La prima, un po più generale, su cosa ci consentono di capire i bigdata in ambito sociale, e su come li possiamo di fatto usare.

 

Secondo il Prof. Pedreschi I bigdata ci consentono di osservare dei comportamenti individuali permettendoci di trarre delle teorie sociali di “corto raggio” specifiche condizioni. E con questo di produrre dei modelli decisionali meglio tarati.

“Per esempio con la geolocalizzazione siamo in grado di comprendere come le città vengono attraversate, quali percorsi vengono privilegiati in determinate condizioni di contesto (pioggia, neve, cantieri, traffico), e conseguentemente fare ipotesi di viabilità sulle quali lavorare per migliorare l’esperienza dei cittadini”.

Quindi dati come questi nell’esempio consentono poi di ri-orientare i flussi a seconda dei vincoli specifici che nelle città si presentano. Ma Pedreschi mi chiarisce che sul piano delle decisioni il punto non è quasi mai ri-orientare i flussi, altrimenti non faremmo che spostare il traffico da un ambito all’altro. Piuttosto si tratta di diversificare il più possibile questi flussi, cioè dare indicazione agli autisti in qualche modo random su itinerari diversi per sciogliere questi nodi di viabilità il più possibile, ed anche tracciarne altri in forma di serendipity.

neuroni

Insomma il sistema di raccolta di questi dati dovrebbe poi poter parlare con device individuali consentendo molte opzioni nelle mani dei singoli piuttosto che reindirizzare interi flussi.

Nelle mia testa questo concetto è stato abbastanza dirompente, e molti sono i collegamenti che ho fatto con le organizzazioni e la #socialorg. Li i flussi sono collaborativi/informativi/operativi, ma il concetto è lo stesso: i dati servono a comprendere il contesto in cui ci si muove, ed al singolo o ai gruppi è chiesto poi di usare questi dati per individuare forme emergenti di volta in volta adatte ad affrontare la situazione. In modo fluido e proattivo.

Insomma il dato prodotto dal singolo si aggrega con gli altri, formando una mappa di comprensione che poi torna al singolo per la presa di decisione

L’effetto sul tema della governance dei sistemi è importante come si capisce.

Pedreschi fa notare per esempio come le istituzioni nazionali sembrino meno sensibili al tema mentre quelle locali (città in prevalenza) abbiamo una domanda di data analytics molto più consapevole.

Forse, ma per me è ancora una domanda molto aperta, dovremo pensare a dei modelli hub&spoke avanzati dove questi ultimi siano poi gli individui a conti fatti.

A questo punto della conversazione non abbiamo potuto esimerci dall’esplorare il tema della privacy. Insomma, l’analisi di dati di questo tipo è piuttosto invasiva, non nascondiamocelo. Allora come si pone la questione di equilibrio fra la necessità di osservare e catturare informazioni con quella del rispetto degli spazi individuali?

Per Pedreschi la logica è quella del privacy by design. Cioè lo scambio consapevole che la persona deve essere messa in grado di fare con un soggetto responsabile, il quale restituisce però un valore tangibile.

In fondo, ci ricorda Pedreschi, i dati più utili per comprendere i comportamenti non sono Open, ma patrimonio della persona, e non possiamo non passare da una new deal on data con questa se vogliamo davvero comprendere dei fenomeni. Ma come detto dobbiamo restituire del valore reale: qualcosa che renda migliore la vita della persona.

Anche qui l’analogia con l’organizzazione è evidente. Possiamo leggere le conversazioni nel digital workplace, analizzare, trarre dei modelli. Arrivare perfino ad osservare movimenti fisici nei building, o transazioni più private, ma il punto è: con quale vantaggio per la persona? Quanto questa è fatta parte attiva di un sistema con il quale scambia informazioni per ottenere maggiore consapevolezza, capacità di decisione autonoma?

Dovremmo pensare a dei modelli di data analytics organizzativi che sono disegnati in qualche modo con le persone stesse, che ne possano quindi condividere gli obiettivi e definire i perimetri.

I dati sono poi strumento non solo di analisi statica, diciamo così, di un fenomeno o contesto. Ma più di questo consentono di simulare scenari per poterne prevedere effetti, e valutare la validità di certe opzioni strategiche.

Ed anche questo torna ad essere una delle condizioni assolute di evoluzione dei modelli di decisione nelle aziende, come nella società si intende.

Ma allora quali competenze servono per poter governare in questi termini i data analytics?

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Per Pedreschi, che conia la funzione di Knowledge Sinthesys, vi sono diverse competenze da assumere:

Intanto la prima competenza è “sapere” dove è il dato, il migliore dato. E se il dato non c’è il saper generare un “campo” di osservazione per raccoglierlo. Nelle organizzazioni quindi il data analyst non può non avere competenze organizzative e approccio psicosociale dico io. Senza questo potremmo finire per raccogliere ogni dato, come un rastrello con le foglie, senza però sapere poi distinguere fra utile ed inutile a fini specifici

– Un altra competenze che il prof. cita è davvero illuminante, per quanto da queste parti ne si stata spesso sostenuta la necessità per i leader del futuro. Quella della “narrazione del sapere”. I dati raccolti in istogrammi, torte, flussi, possono non essere in grado di aiutare in azienda. Servono traduzioni comprensibili, ed in questo senso lo storytelling è una leva che può aiutare molto e bene.

– L’ultima che Pedreschi cita non è in se una competenza, se la analizzassimo in punta di manuale di comportamento organizzativo, ma di nuovo risulta illuminante. L’etica del dato.  Nei manufatti di dati vi sono comportamenti manifesti o meno che riguardano persone, vite. Questo chiama gli analisti, a diverso livello e titolo, ad una approccio trasparente, comprensibile, orientato a produrre valore per tutti. Se le persone diventano un mero laboratorio dei sperimentazione dell’analista facciamo un danno sociale irreparabile.

Non nego che avrei fatto un’altra decina di domande a Dino Pedreschi, se non altro per il suo entusiasmo su questo tema, e per la sua naturale vocazione a “farsi capire”, che ha reso questa chiacchierata davvero piena di stimoli.

Mi sono ripromesso di incontrarlo nuovamente nei prossimi mesi e lo farò, perché come qui dico spesso non c’è grande futuro per le organizzazioni che si social-izzano che non passi dalla dimensione dell’analisi del dato. Come risorsa che consente di capire, sperimentare, creare valore per tutti. Dentro e fuori l’organizzazione.

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