Tutto il trend di discussione sui Big Data ha riaperto con ancora più forza il tema della Business Intelligence per le aziende.
Questa dovrebbe essere una pratica di modello decisionale che si fonda una analisi molto ampia di dati reinterpretati al fine di fornire elementi di scelta consapevole.
Non che si possa meccanizzare in toto questo processo così delicato – la raccolta certamente, e forse qualche prima azione di interpretativa – dovendo la decisione per sua natura chiamare in causa elementi di intuito, sensibilità, aspirazione che di fatto sono il cuore della decisione manageriale. Ma questo tema che si rilancia si collega opportunamente alla necessità di governare una complessità chiamando in causa a modelli di analisi davvero meno empirici rispetto a quelli che vediamo usare comunemente. E questo è un bene!
Ritengo che questa opportunità si ponga anche all’interno del paradigma della social organization.
Certo se guardiamo all’organizzazione attraverso la lente del ‘900 e la interpretiamo come un sistema regolato di transazioni formali, dello dei Big Data ci appare uno sforzo poco utile.
Ma se più opportunamente guardiamo sotto il velo del formale e cogliamo quella complessità che sono le conversazioni interne, allora ci rendiamo conto che abbiamo a che fare con un potenziale che dovremmo imparare a leggere per poterlo trasformare in reale valore organizzativo.
Il modello di riferimento sui Big Data è quello delle “3V”.
Se lo prendiamo a riferimento riusciamo a cogliere bene il complesso sistema di transazioni che caratterizzano gli scambi conversazionali interni alle organizzazioni moderne:
- Volume: innegabile come oggi le organizzazioni producano masse importanti di contenuto interno, dal più al meno strutturato, che la attraversano ogni giorni per molte direzioni diverse.
- Varietà: questa dimensione ci chiama a guardare certamente all’ampia gamma di contenuto che viene prodotto, ma anche ai canali entro i quali questo è veicolato e trasmesso
- Velocità: anche in questo caso l’esperienza anche personale ci dice di come le transazioni siano spesso immediate, contingenti, situate, e di come questa velocità generi una perdita cognitiva di comprensione dell’insieme.
Perché dovremmo leggere e capire le conversazioni?
Tutto questo effort quale ritorno può pragmaticamente generare?
La risposta più “alta” sta nella presa d’atto che l’ecosistema informativo è davvero cambiato in modo irreversibile. Strumenti e approccio culturale alla comunicazione ci consegnano una sfida ma anche una opportunità irrinunciabile: ascoltare, raccogliere e valorizzare ogni riserva di competenze, idee, opportunità che si generano nelle organizzazioni.
Proprio in un quadro in cui la comprensione del valore generato nelle organizzazioni non passa più per le sue strutture formali, le conversazioni diventano l’ambito nel quale catturare elementi trasformabili in valore.
D’altra parte, riescono oggi i sistemi di process analysis classici a darci comprensione completa di dove si annidano sacche di inefficienza o opportunità nei processi oprativi? Sempre meno.
Riescono i tradizionali modelli di talent ad individuare tutti i talenti personali a disposizione nell’organizzazione? Difficile.
Riusciamo con i più tradizionali processi di R&D a dare impulso continuo all’innovazione che sempre più spesso chiede pensiero divergente? Quasi impossibile.
Ma tutto questo ha una ragione anche molto evidente se riprendiamo il quadro che abbiamo descritto sopra: i processi formali in qualunque ambito siano inseriti sono agiti dalle persone, e queste si allineano, reinterpretano, fanno adattamento continuo attraverso la conversazione. Questo knowledge flow è il vero campo da gioco dei social enabler contemporanei (i manager) ed in questo devono saper giocare la partita decisionale.
Ma da dove partiamo? In effetti…dalla conversazione stessa.
Quello che ci serve come elemento preliminare è mettere a disposizione “luoghi” organizzativi in cui abilitare totalmente la conversazione e lo scambio, perchè possano diventare piazze di osservazioni per i listener interni.
Una delle piazze digitali più opportune, nonché cellula organizzativa elementare della Social Organization, sono proprio le community. Queste per loro natura si fondano sullo scambio conversazionale e divengono la struttura reticolare di base per fare conversational analysis.
LA CONVERSATIONAL ANALYSIS PER IL SOCIALHR
Il SocialHR che come abbiamo detto spesso è (può?) essere il grande abilitatore della Social Organization, può rifondare tutto il ciclo di governo delle risorse sull’implementazione di community nelle quali agire le practice di sviluppo tipiche del suo ruolo.
Ma anche qui il tema torna con tutta la sua forza: come catturo, leggo ed interpreto masse dati conversazionali così imponenti per dare valore alle azioni che vado a promuovere?
Serve una strumentazione di ascolto da una parte, e dei modelli interpretativi opportuni ed in qualche caso specifici per poter dare senso a quelle transazioni.
Ricordiamoci sempre che le organizzazioni non sono il web. Le transazioni ed i modelli relazionali interni non sono per loro natura peer to peer, ma ancora fortemente intrise di dinamiche top down e gerarchiche. Capi e collaboratori in una community non sono “liberi” di esprimersi totalmente fuori dal loro ruolo e dalla cultura di riferimento di quella azienda.
Di tutto questo si deve tenere conto nelle fasi interpretazione di quelle conversazioni, e l’armamentario interpretativo tipico della ricerca antropologica e della sociologia organizzativa restano dei riferimenti importanti e molto utili
Il SocialHR in questo campo ha una opportunità tutta collegata al proprio ruolo quindi:
- deve profondamente prendere atto di questo scenario
- deve acquisire competenze di Intelligence che facciano da quadro alle azioni tipiche del suo ruolo e non agire “reattivamente”
- deve imparare a costruire ambienti digitali come le community in cui operare questo “ascolto”
- deve strutturare un sistema di governance di conversational analysis
- deve costruire un modello di listening collegabile alle practice del ruolo, che insomma siano la base delle sue decisione su formazione, sviluppo, talent, ecc.
- deve formare/acquisire specialisti che lo supportino in questo ascolto
IL CONVERSATIONAL ANALYST
Come ho detto spesso qui, la social organization domanda un insieme di competenze nuove per poter produrre gli effetti che ci aspettiamo. Ho insistito per esempio sulla necessità strategica di cominciare a formare community manager interni, che possano nutrire e sostenere le community. Così come sono tornato spesso sulle competenze digital (non IT!) che ogni manager deve acquisire se vuole governare la complessità delle organizzazioni contemporanee.
Quella del conversational analyst è un’altra necessità reale per le aziende oggi. Così come scandagliamo la rete e le conversazioni che li vi hanno luogo attraverso figure di data analyst, così questo approccio deve diventare un basic nella social organziation.
Il conversational analyst deve:
- fare listening delle conversazioni interne
- generare dei modelli interpretativi che valorizzino contenuti ma anche i migliori contributori nelle community
- produrre reportistica periodica da indirizzare al SocialHR ma anche alle altre funzioni manageriali
Servono, come si capisce bene, un set di capacità e competenze particolari a supporto di un ruolo come questo. Ne elenco qui seguito alcune ma su questo fronte c’è da lavorare ancora un po:
- tecniche:
- confidenza con ambienti digital&social
- capacità d’uso di strumenti di listening
- capacità di strutturare un modello di reporting
- organizzative:
- comprensione delle dinamiche formali ed informali
- sensibilità su aspetti di comportamento organizzativo
- conoscenza dei processi organizzativi, loro fini ed obiettivi
- soft skill
- capacità cognitive di lettura del testo scritto (pensate sia banale?)
- empatia relazionale
- sensibilità culturale
QUINDI…
- Misurare serve oggi più che mai, ma è più una opportunità che una criticità
- L’organizzazione come la rete è un campo di osservazione
- La social organization con le sue community mette a disposizione le “piazze” su cui fare ascolto
- Il SocialHR ha in questo ambito un ruolo di promozione, ma una opportunità per sostenere le sue azioni
- Servono modelli, governance, e competenze di conversational analysis
2 risposte
Ciao Alessandro, bel post, davvero molto denso!
Provo a contribuire con un paio di pensieri…
La prima riflessione parte dalle competenze di conversational analysis, che propongo di inquadrare sulla base di una collocazione del ruolo: io suggerisco di trattare (il conversational analyst) come una figura ibrida – un bounday spanner 🙂 che dovrebbe saper leggere, interpretare e legare le influenze reciproche tra l’organizzazione fattuale e quella virtuale. Come hai ricordato anche tu le community organizzative non nascono nel vuoto, ma sono influenzate in maniera profonda dalla cultura aziendale, dalla gerarchia esecutiva, ecc… e, a loro volta, la influenzano; un listening attento dovrebbe tenere in considerazione questa codeterminazione.
Il secondo pensiero riguarda l’inquadramento degli oggetti di analisi: a mio parere si tratta di dotarsi di una strumentazione concettuale che metta al centro il monitoraggio della capacità delle community di generare APPRENDIMENTO (organizzativo) attraverso la dinamica ricorsiva di partecipazione e reificazione di un repertorio condiviso, l’arricchimento dei saperi attraverso la messa al lavoro dei confini che separano le diverse pratiche che vivono nelle organizzazioni, la capacità di offrire ai partecipanti un contenitore sufficientemente buono per pensare, confrontarsi, generare innovazione e superare le difficoltà, ricreando un network di relazioni di cui sempre di più si sente il bisogno.
Infine, quali sono gli “oggetti” su cui posare lo sguardo? A mio parere sono tre: le community come campo emergente, l’organizzazione come cultura e gli individui, unicità al lavoro con una profondità soggettiva fatta di emozioni e cognizioni; dall’incrocio di questi tre campi nascono a mio parere le conversazioni di cui interessa intercettare il valore.
Spero che queste riflessioni possano essere un tassello in più. Buon lavoro!!
Grazie Davide. Siamo d’accordo sull’idea di community come strumento social di sviluppo. Per il SocialHR mi pare ci sia molto da fare qui!