Le community of practice sono molto spesso le forme di social collaboration più immediate da immaginare nei processi di social transformation organizzativa.
Questo perché le purpose collegate ad esigenze di scambio e condivisione in perimetri professionali e tecnici sono molto presenti nelle organizzazioni odierne. La pratica professionale esiste come componente tipica delle organizzazioni che sono strutturate per “mestieri” in qualche modo: la sales force, le aree tecniche, il customer service ne sono un esempio. Ma oggi anche le comunità di professional collegate, per esempio, alla funzione HR o quella finance. Tutti ambiti in cui le verticalità tecniche generano, appunto, una domanda di scambio professionale e mutuo supporto in qualche modo.
Insomma niente di più normale quindi che si parta spesso da questi perimetri per dare risposta a questa domanda.
Comunità di pratica ed Eco Chamber Effect
Il grande vantaggio per i membri di una community of practice è quindi l’opportunità di dare luogo ad uno scambio su temi professionali pressanti che derivano appunto dal comune processo seguito, obiettivi da raggiungere, strumenti di conoscenza a disposizione.
La conversazione all’interno di questi perimetri abilita quindi un potente scambio di esperienze che compendiano le conoscenze più “formali” dando alle persone strumenti ulteriori per affrontare le proprie sfide quotidiane.
Questo non genera solo un vantaggio personale, ma anche la costruzione progressiva di sapere collettivo legata a quella pratica che diventa nel tempo un vero asset organizzativo.
Quello che si genera di fatto è un echo chamber effect in cui le pratiche e le esperienze circolano in questa camera virtuale e risuonano, arrivando a tutti e fruendo dell’apporto di tutti.
Ma come spiega molto bene Paul Leonardi questo effetto ha in se anche il proprio limite: la camera tende a chiudersi intorno ai suoi membri creando una forma di entropia del know how che rischia di non arricchirsi più per apporti divergenti.
Insomma la conversazione professionale spande in modo circolare fino al punto di saturarsi e non rinnovarsi più. Questo effetto si accompagna anche con forme di consolidamento del “noi” del gruppo che finisce per chiudersi anche dal punto di vista culturale.
Ma oggi nessun perimetro professionale può pensarsi avulso dal sistema, che deve essere interconnesso in tutti i suoi elementi se vuole generare valore.
Produrre “perdite” generative
In sostanza va generato un equilibrio fra la normale e fruttuosa necessità delle community of practice di “chiudersi dentro” per far consolidare il proprio sapere, e quella di potersi aprire e farsi fertilizzare da layer di sistema che le sono connesse.
Ancora come descritto nel lavoro di Paul Leonardi con la metafora del Leaky Pipes, è necessario è generare delle aperture che facciano uscire ed entrare elementi di discontinuità se si vuole, da una parte, evitare l’atrofia all’interno della Community of Practice, e dall’altra scaricare valore di questa sul sistema più ampio.
In pratica questo vuol dire pensare a processi in cui la community è “costretta” a relazionarsi con altre community o layer organizzativi formali. E poi lavorare su tecnologie di connessione che siano aperte, consultabili, in cui chiunque può vedere quello che succede all’interno ed interagirvi.
I tipi logici del sistema aperto
Questa riflessione va però allargata se non si vuole superare un limite per poi trovarsene un altro appena dopo.
Il sistema di relazioni in cui vive l’organizzazione oggi è rappresentabile con la logica russelliana dei tipi logici: insiemi contenuti da altri macro-insiemi omogenei, che creano una struttura a matriosca a più livelli. Nel caso specifico l’ecosistema collaborativo.
In questa rappresentazione è possibile comprendere come team e community organizzative non si muovono nel vuoto assoluto di relazione, ma sono immerse in quella rete di connessione in cui i partner a diverso titolo producono pezzo del valore per l’azienda. Fino alla dimensione più ampia in cui tutti questi sono inseriti nel rapporto con clienti e in generale nello spazio sociale.
Questo per dire, riprendendo le nostre community of practice, che se anche queste fossero aperte all’interno dell’organizzazione e capaci di fertilizzarsi fino a generare un sistema di network interno fluido, questo stesso livello potrebbe rischiare di cadere nel echo chamber effect in prossimità dell’esterno, e chiudersi dentro.
Aprire i livelli e connetterli
Come abbiamo detto quindi lo sforzo centrale è che le conversazioni si aprano (Leaky pipes effect) e possano uscire dalla camera nella quale sono generate per produrre effetto sul sistema di prossimità.
Ma aprire non è in effetti sufficiente. E’ necessario che si abilitino delle “forze” che colleghino fra loro i livelli del sistema e li facciano interagire. Dei connettori che veicolano le conversazioni e le rendano in qualche modo disponibili continuamente.
Nella scienza sociale, e nello specifico nella pratica della social network analysis, si parla di Boundary spanner. Questi, in una rete articolata, è un mediatore in grado appunto di connettere un agglomerato di nodi con altri. In chiave più operativa si tratta di una persona che deve essere riconosciuto dai diversi livelli che sono confinanti, come autorevole e capace di comprendere linguaggi, modalità e dinamiche.
Non è semplice individuare questi nodi di connessione. Si tratta di persone con esperienza dei due “mondi”, ma anche con una particolare capacità di relazione e connessione.
Nel perimetro della social organization questi opera nelle enterprise social network, nelle Intranet, sulla rete, nei social network, nei canali di comunicazione che connettono organizzazione e mercato.
Obiettivo è quello di generare linee di Boundary Spanner sulle prossimità da una rete all’altra proprio per facilitare l’incontro fra mondi che rischiano per diverse ragioni di chiudersi in se.
“Povero” social share maker!
Certo tutta questa architettura può sembrare molto complessa da abilitare e nutrire. E certamente operazione facile non è. Ma ritengo che i concetti fin qui esplorati debbano diventare ferri del mestiere degli agenti preposti alla social-izzazione delle organizzazioni moderne.
Sostituire (o perlomeno affiancare) concetti di lettura tradizionale delle organizzazioni con elementi come questi è necessario quando si abilita la nascita di sistemi di relazioni quali sono le community. Queste rispondo ad elementi di complessità sociale che vanno conosciuti per poter essere governati ed alimentati.
I concetti tradizionali collegabili al paradigma organizzazione=macchina non ci aiutano, e finiamo per con comprendere le dinamiche che abbiamo davanti.
Ma l’opportunità è davvero grande oggi: rendere le organizzazioni un tessuto sociale dinamiche e proattivo capace di mettersi in connessione con la società in cui è immersa. Società che di fatto si muove come un sistema le cui logiche sono, in parte, quelle che abbiamo visto fin qui.
Ed una opportunità per gli agenti di cambiamento, SocialHR, CDO, enabler manager, di ridefinire le proprie competenze per agire in modo efficace nella contemporaneità.