Nei giorni scorsi ho letto un bel saggio, prodotto di un lavoro di analisi articolato, a firma di Paul M. Leonardi e alcuni suoi colleghi.
Il lavoro si intitola Enterprise Social Media: Definition, History, and Prospects for the Study of Social Technologies in Organizations e si concentra sull’adozione dei social media all’interno dei processi organizzativi, ed ha l’obiettivo di fare il punto.
Vi consiglio di leggerlo, si tratta di una ventina di pagine dal linguaggio non esasperatamente tecnico, quindi davvero fruibile.
Condivido qui con voi quello che considero il cuore del lavoro. Si tratta di tre dinamiche “catturate” dagli esperti legate all’introduzione di enterprise social media e riassunte nelle seguenti metafore a mio avviso anche molto ben pensate
Confesso di aver dovuto cercare e comporre il significato di questa prima metafora. Di fatto si potrebbe tradurre con: tubo che perde. Rimanda all’immagine di una rete di tubature in cui il contenuto viene veicolato, ma che in alcuni punti ha delle perdite che fanno fuoriuscire quel contenuto.
La metafora coglie quello che Leonardi ritiene essere un fenomeno intrinseco dei social media nelle organizzazioni, ma anche una prospettiva gestionale da perseguire in qualche modo.
Insomma, dovremmo costruire un sistema di comunicazione e network attraverso i social media, che presenti sostanziali perdite che permettano a persone non direttamente coinvolte con quella specifica transazione comunicativa, di vedere che questa sta avvenendo.
Il vantaggio che Leonardi richiama è pure intuitivo, e forse scontato di per se. Persone in grado di accedere e flussi comunicativi anche a loro molto lontani possono fruire di informazioni che accrescono le proprie consapevolezze, ma anche, in casi più strutturali, di sviluppare una dimensione di sapere collettivo che arricchisce il capitale sociale organizzativo. Aiuta le persone ad allinearsi in termini anche di sensmaking collettivo intorno a temi caldi, e a capire come persone a loro anche molto lontane affrontano problemi e li risolvono.
“Research suggests that by being exposed to leaky communications can allow people to keep up with what others are doing in an easy way.
“…found that the broadcast nature of microblogs and other ESM tools served as a ‘‘People-based RSS feed’’ that might help ‘‘keep a pulse on what is going on in others’ minds.’’
“… a way to orient themselves in the organization’’ with respect to what and who others knew (Brzozowski, 2009, p. 7).
“…individuals may be able to increase their social capital by expanding their networks or by deciding which people represent redundant contacts that provide little knowledge advantage and reconfigure their networks to bridge across structural holes “
La mia riflessione intorno a questo punto va sul piano reale dell’introduzione di questi progetti, laddove spesso noto una predisposizione alla compartimentazione, segregazione qualche volta, di questi flussi. Il rischio sentito come dominante è la complessità, la ridondanza, ma anche la difficoltà di governare in modo stretto (tema ancora molto presente nel management).
Leonardi dimostra, citando case history importanti, come i vantaggio di questa “rete gocciolante” siano di gran lunga più alti delle complessità gestionali che certamente in parte vi sono. L’impatto sul Knowledge sharing e l’occasioni di apprendimento collettivo sono davvero incontestabili e necessari nelle organizzazioni moderne.
In questa seconda metafora (la camera dell’eco) Leonardi si appunta su quello che potrebbe anche essere un luogo comune da attaccare: il fatto che ecosistemi di comunicazione aperti siano sempre modelli di reale trasmissione libera di conoscenza e scambio di pensiero divergente puro.
In realtà, ma questo lo sappiamo bene oggi (pensiamo a come si sia orientato l’algoritmo di Facebook per esempio), tendiamo a cercare voci e contributi che “risuonano” con le nostre (Like-minded effect). E con queste finiamo per intrattenere la maggior parte delle interazioni di network.
La tensione descritta da Leonardi è fra due elementi: la ricerca di massimo vantaggio personale, rappresentato dalla possibilità di cercare e trovare contenuti di cui necessito, ed il rischio di Balkanizzazione come effetto della riduzione delle mie interazioni a quelle sole stimolazioni coerenti.
Questo mi fa pensare alle esperienze di comunità di pratica organizzative per esempio, che si fondano di fatto sul driver del contenuto professionale. Ma anche sulla mutua comprensione circa i problemi e le difficoltà comuni a chi svolge medesimi ruoli. Uno spirito di corpo che necessario se si vuole che la CdP mandi a regime gli scambi generando valore interno, ma che può sfociare in una dimensione di groupthink che chiude il gruppo dentro se stesso.
Questo perimetro di mutuo riconoscimento è utilissimo sulla dimensione di costruzione di knowledge professionale e sulla condivisione di best practice che aumentano il livello di efficacia organizzativa.
Sappiamo però quanto valga però oggi la contaminazione, come pratica che porta con se pensiero divergente e innovazione anche dentro la specifica pratica. Ma anche di come la fertilizzazione accresca una percezione larga di senso di appartenenza, che nelle organizzazioni non può finire con il team, gruppo o community di diretta appartenenza.
“…practice theory has shown that boundaries emerge around common practices; knowledge may be leaky within community of practice, but surprisingly sticky between such groups (Brown & Duguid, 2001)”
Le derive di groupthink sono molto ben conosciute dalla letteratura psico-sociale e del comportamento organizzativo, e spesso sottolineate come depauperanti nel lungo termine.
Allora per il social changemaker il dato qui può essere la necessità di trovare un equilibrio dinamico fra la dimensione di ambienti che permettano la possibilità di dedicarsi a conversazioni e processi differenziati e in parte segmentabili, ma accessibili dall’esterno e che in qualche modo presentino delle “perdite” continue come nella metafora precedente.
E’ del tutto evidente di come la questione qui sia solo superficialmente tecnologica, nel senso che questa deve permettere funzionalità di accesso e trasparenza. Ma più vero come su questo aspetto giochi molto la dimensione organizzativa e culturale, sul quale l’architetto della social organization deve puntare per ridimensionare l’effetto echo chamber.
Di fatto fare si che le community siano interconnesse fra loro in una rete di camere “aperte” con lunghi “corridoi” in cui tutti possono circolare liberamente. Sul piano pratico mi sembra di trovare un supporto teorico al consiglio consulenziale che mi sento di dare sempre quando supporto processi di digital transformation: tutti devono vedere tutto!
Questa terza metafora è ben riassunta, anche provocatoriamente, dalla seguente frase del saggio:
” To support and sustain the social fabric of organizations, social network interactions need to run smoothly, without much managerial intervention. In other words, to keep the wheels turning, social embeddedness lubricates informal network…”
Questa metafora introduce a mio avviso la dimensione spesso qui richiamata del cambio di leadership necessaria in questi progetti di #socialorg. La natura di intervento che meglio di altri permette la trasformazione culturale insita in questi progetti è quella “abilitativa” e non gestionale.
Certo, al social changemaker “prudono le mani” naturalmente. Sente di dover fare qualcosa di attivo per potersi dire di stare spingendo il cambiamento organizzativo. Ma la questione è che spesso questo si traduce in micro-azioni dentro le dinamiche, nel bel mezzo dei flussi, inducendo ed influenzando oltremodo.
Volendo scomodare Heisemberg sappiamo che nessun osservatore è totalmente neutro rispetto all’oggetto osservato. E nei processi di cambiamento men che meno perché delle azioni orientative devono essere pure fatte. Ma il senso qui è capire come si possa passare operativamente dalla logica della costruzione di contesti (processi; competenze, tecnologie abilitanti) per poi lasciare che siano le persone dentro esperienze operative con purpose chiare, a determinarle collettivamente.
” In order to keep the conversations and connections running smoothly, organizations might be better of with social lubricants than social glue.”
Quindi lavorare proprio sul piano del sistema, renderlo fluido, accessibile, aperto, in parte ri-settabile continuamente. Il social architect opera proprio sul piano organizzativo congeniale al SocialHR secondo me.
Questa riflessione non offre in modo immediato risposte operative e tecniche, ma si collega ad una necessità che sento crescere in me e spero presto nel mercato: quella di capire se pratiche, modelli, tecnologie siano collegate fra loro da un principio di efficacia più corposo che il mero richiamo al “basta guardare il web“.
Un richiamo, quest’ultimo, che lascia amaro in bocca perché non considera appieno la specificità (almeno ancora per oggi) del “contenitore” organizzativo, che presenta dinamiche complesse di potere, burocrazia, relazioni che non possono essere banalizzate se si vuole che un progetto di #socialorg porti risultati.
Lavori come quello di Paul Leonardi vanno nella direzione di creare delle basi solide di conoscenza che possono essere spese nei progetti in azienda.