Nei giorni scorsi l’amico Emanuele Quintarelli ha condiviso un link ad un bel lavoro di inquadramento sul tema del community management elaborato dal team di The Community Roundtable.
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Questo mi ha indotto a sistematizzare alcuni modelli che, con i colleghi Fabrizio Maddalena e Davide Dalla Valle, abbiamo implementato nell’ambito di un progetto su cliente.
Il tema centrale sulla natura e competenze del community manager organizzativo ruotano intorno alla domanda se questi debba abilitare o guidare le interazioni nella community. Dico “organizzativo” perché resto convinto che pur essendoci evidenti punti di sovrapposizioni fra le community “esterne” e quelle “interne”, quest’ultime sono un fenomeno che risente ancora moltissimo del contenitore nel quale sono inserite: l’organizzazione appunto.
Per quello che mi riguarda non riesco a pensare alle caratteristiche di nessun oggetto se non mettendolo in un contesto. In questo senso le modalità di azioni del community manager vanno inserite nell’ambito della tipologia di community che questi deve supportare.
UNO APPROCCIO PER FARE SVILUPPO
Individuando due tipiche “tensioni” dell’attività in community, la conversazione e la produzione di contenuto, si può provare a generare una mappa che colloca nello spazio le diverse community a seconda del mix che ognuna di queste genera.
Le tipologie di community indicate nel grafico sono volutamente molto generiche, più dei cluster in effetti, ma possiamo arrivare ad un grado di articolazione ben più ampio.
Nell’area grigia troviamo community che per loro natura fruiscono di molti manufatti di contenuto (Learning) ma che altrettanto ne producono (Pratica e Scopo). Sono community che hanno una tensione al contenuto molto forte in cui la conversazione è lo strumento di creazione e manipolazione di questo. In questa area per il community manager l’obiettivo è quello paradossale di abilitare il più possibile conversazione perché i membri della community possano generare valore geometrico intorno a quei contenuti.
Nell’area gialla invece troviamo community che si fondano sulla tensione conversazionale (Brand e Interesse) sia per tessere e consolidare relazioni che per scambiare e far circolare knowledge (Pratica). In quest’area quindi il community manager svolge una azione supportiva alla creazione di manufatti da parte dei membri che diventano anche la cifra dell’efficienza della community stessa.
In questo schema quindi si capisce bene come il community manager deve generare un azione differenziata proprio a partire da quel mix fra contenuto e conversazione.
IL SOCIALHR DESIGNER DELLA SOCIAL ORGANIZATION
Da una mappa come questa derivano quindi riflessioni utili allo sviluppo di una delle figure professionali che sarà centrale nella social organization. E di nuovo qui risulta evidente come la funzione del SocialHR sia nel supporto metodologico al lancio delle diverse community che in quello della formazione del community manager, divenga strategica ed insostituibile.
Un ruolo che dovrà saper agire sull’intero ciclo di governo delle risorse, che oggi diventano reti, per costruire il contesto nel quale fare emergere dinamiche collaborative, social, e le competenze che a tutti i livelli servono per alimentarla e nutrirla.
9 risposte
Ciao Alessandro,
bello spunto! Apprezzo molto lo sforzo concreto di sistematizzazione del pensiero sulle community.
Guardando il diagramma mi viene però un dubbio: cosa è oggi il contenuto? Cosa distingue un documento da una conversazione?
Molta della conoscenza esplicita che stiamo creando in questi anni è fluida e dialettica. Non esisterebbe aldifuori del contesto relazionale (la rete come dici tu) nel quale è stata creata. D’altra parte il contenuto “documento” diventa sempre più statico ed incapace di tenere il passo con la velocissima obsolescenza del sapere che contraddistingue buona parte delle community operative.
Se un tempo apprendevo soprattutto per documenti (il WBT), oggi questo avviene in prevalenza per differenza, confronto, interazione. Dimensioni basate più sulla fiducia che sulla formalizzazione. Più sulla conversazione che sul documento. Il contenuto diventa allora un proxy temporaneo della conoscenza, un pò come la superficie più rigida, ma mai veramente solida di un lago di magma in continua ebollizione.
Cosa ne pensi?
Grazie Emanuele,
Io distinguo fra “manufatto” e tensione al contenuto (forse avrei dovuto articolare meglio il pensiero su questo).
Il secondo è una dinamica che ho osservato in alcune community che spinge le conversazioni verso la produzione di punti di connessione, idee, sui quali i membri fondano il mutuo riconoscimento nella community.
I manufatti sono gli oggetti (file, documenti vari) che questi producono come effetto terminale di questa tensione.
In questo quadro le conversazioni sono lo strumento. Mentre nell’area opposta si invertono queste tensioni.
La fluidità è garantita dal continuo scambio e mix fra queste due tensioni.
D’altra parte “costruire insieme oggetti” è una delle poche dinamiche che portano le community sul piano della realtà in cui agiscono, e credo che vada agevolata questa attitudine (come costruire vasi nelle popolazioni pre-civilizzate).
Hai ragione nel dire che l’apprendimento si gioca sulla continua conversazione fluida e mai interrotta. Intenderei i “contenuti” come dei punti nave che la community fa in questo flusso continuo.
Un wiki è una conversazione o un documento? 🙂
Non è quella la distinzione che propongo qui, ma sto sulla tua provocazione:
– gli insight che si sono concentrati sul documento sono conversazioni
– le idee comuni che si sono rappresentate li dentro sono contenuto
– il wiki editato…documento (manufatto)
Il contenuto di cui parlo non è necessariamente documento, ma costrutto comune.
A scanso di equivoci qui di seguito quello che penso sia un wiki 🙂
https://logoslab.org/2012/01/30/la-rivoluzione-umano-centrica-dellorganizzazione-2-0-il-sapere-collettivo/
Ciao Alessandro, ciao Emanuele, grazie innanzitutto per gli interessanti spunti.
In merito alle dimensioni di cui stiamo parlando, conversazione, contenuto e documento penso sia molto difficile tracciare distinzioni nette, linee di taglio che separino in maniera rigida.
Per quanto concerne la dimensione del documento, forse ciò che mi sentirei di dire è che in questo nuovo contesto esso viene generato in una dinamica processuale di contribuzione P2P, che non sostituisce ma affianca le logiche top down dei saperi esperti, dei documenti sui quali tutti ci siamo formati; dalla fruizione di contenuti siamo passati alla generazione di contenuti, o meglio, al riconoscimento di questa generazione tramite un effetto di reificazione che le conversazioni, di cui resta traccia nelle community, rendono palese.
Ciò che mi trova in totale accordo con Alessandro è la necessità di cominciare a riconosce le peculiarità delle community interne al perimetro organizzativo e di dotarci di una strumentazione concettuale e operativa che possa aiutarci nel lavoro di attivazione, implementazione e presidio delle community. In questo senso la distinzione tra focalizzazione sull’incentivazione di conversazioni e focalizzazione sulla sintesi di contenuti, può essere utile per individuare modelli di azione per i community manager e di formazione dei community manager.
A questo proposito ritengo che sia necessario sviluppare modelli (di comportamento e di formazione) coerenti con la sempre più accentuata dinamica di lavoro P2P che le community incentivano, e che sappiano fornire ai community manager le competenze necessarie per sostenere i lavori della community verso attività di negoziazione, test e sintesi delle conoscenze prodotte e verso un ritorno all’azione organizzativa.
In sintesi estrema penso che le community interne non posano sganciarsi del contesto organizzativo, che rimane il punto di partenza e il punto di arrivo, e questo nesso necessario io lo individuo nella produzione collettiva e negoziata di conoscenza e nel ritorno a un’azione organizzativa coerente, che si sviluppa per il tramite delle conversazioni e si condensa, in forme transitorie, in contenuti condivisi.
Ciao Alessandro.
Condivido in toto queste tue parole: “Dico organizzativo perché resto convinto che pur essendoci evidenti punti di sovrapposizioni fra le community “esterne” e quelle “interne”, quest’ultime sono un fenomeno che risente ancora moltissimo del contenitore nel quale sono inserite: l’organizzazione appunto”. La vera differenza la fa l’organizzazione, il substrato culturale; senza di essi diventa alquanto improbabile costruire una community nel senso lato del termine e attendersi risultati positivi in termini di reale e attivo engagement da parte dei lettori. I veri limiti sono di natura culturale, specie in aziende/organizzazioni di vecchio stampo in cui tali “strumenti” di comunicazione tipici del c.d. web 2.0 sono considerati “superflui”, una distrazione dalle routine lavorative considerate ben più importanti e prioritarie. Per superare il problema, la mia personale ricetta è quindi quella d’investire in formazione per favorire un cambio di mentalità dall’interno, agendo sullo zoccolo duro dei dipendenti/manager, e ingaggiare le giuste professionalità (non tutti si possono improvvisare smm o community manager, non trovi?!).
Tu che ne pensi?
Ciao Francesco e grazie per ip contributo.
Credo anche io che tutti i processi di innovazione trovino nel cultura l’aspetto di resistenza più forte.
La formazione serve, come elemento di awarness in prima istanza, e poi come strumento per crescere.
Vero anche che non tutti possono candidarsi a ruoli quali quello del CM, servono anche qui abilità, attitudini che sono da individuare e sviluppare nel tempo.
Insieme a questo però vedo anche lo strumento dei progetti pilota: forme di sperimentazioni a corto raggio (sia in estensione organizzativo che si tempo) che possano restituire informazioni sulla “prontezza” dell’organizzazione. Elemento su cui lavorare poi in fase di sviluppo. Inoltre hanno il vantaggio far fare alle persone esperienze controllate di questi approcci e far crescere il senso di utilità.
Che ne dici?