In una brainstorming con il collega Roberto Pezza abbiamo convenuto sul fatto che esiste un tema cruciale quando si approcciano progetti di social learning transformation: la sostituzione dell’aula in presenza con modalità di social&digital learning.
Naturalmente questa opportunità va salutata positivamente, sia per gli effetti di recupero di efficienza per le organizzazioni, sia per la ricchezza ulteriore che gli approcci digital possono generare sul fronte dell’esperienza di apprendimento stesso.
Ma esistono delle insidie che vanno considerate bene prima di attivare una smaterializzazione netta dell’aula come spazio formativo (uso spazio, e non solo modalità, a ragion veduta).
Prima di passare all’analisi di queste insidie introduco un concept che tendo ad usare con gli interlocutori interni alle aziende quando sto su progetti di social learning. Rappresento una distinzione molto netta fra il modello e-learning e quello digital learning:
- il primo si sostanzia in forme di trasferimento di contenuto che la persona viene abilitata ad esplorare, acquisire e, in forma molto leggera, sperimentare. In questa modalità “primordiale” le esperienze interattive sono ridotte al minimo: qualche questionario al termine della fase di acquisizione contenuto; piccole forme di problem solving che chiedono di recuperare alla mente le nozioni apprese.
- Mentre connoto come digital learning esperienze più corpose di interattività: simulatori, mappe cognitive, gaming. Tutte queste soluzioni sono diverse dalle prime perché chiedono una call to action cognitiva più decisa ed avanzata. In questo ambito il digital diviene lo strumento abiltante un “campo di azione” in cui la persona si sperimenta, mette alla prova concreta, si misura anche con prestazioni di altri colleghi partecipanti al processo di learning.
Faccio questa distinzione non solo per dare conto dell’evoluzione dei modelli di learning contemporanei, ma anche per cogliere una distinzione in termini di sollecitazione cognitiva che deve essere considerata bene proprio se stiamo pensando a progetti sostitutivi -o parzialmente sostitutivi – dell’aula classica.
In aula, e chi si occupa di formazione e didattica lo sa bene, si attuano dei meccanismi che sono alla base del processo di apprendimento nella persona, e che vanno considerati bene; pena l’inefficacia del processo stesso
In sostanza:
- si fanno emergere i bisogni individuali rispetto al learning object che si sta trattando
- si trasferiscono contenuti, modelli, strumenti
- si genera una call to action con role playing, esercitazioni, esperimenti
- si attiva l’elemento sociale che porta l’apprendimento sul perimetro della comunità professionale
Cii sono due modelli (fra gli altri si intende) che ci aiutano a leggere questa complessa esperienza di apprendimento:
- il primo è il Learning cycle di Kolb
Si tratta di un paradigma che concepisce l’apprendimento individuale come un ciclo che ha nell’avvicendamento fra terreno operativo, concettualizzazione e sperimentazione pratica il processo di acquisizione di nuove modalità e comportamenti. Il cuore di questo modello è l’esperienza.
Qui di seguito faccio una trasposizione del ciclo di Kolb nella dinamica d’aula:
- esperienza concreta. Questo è il contesto con il quale il partecipante arriva in aula rispetto al learning object. Di fatto il suo “mondo” concreto, lo spazio operativo che viene rievocato e chiamato a fare da punto di riferimento (pensate alle forma di ice breaking in cui ci si presenta professionalmente o alle richieste di esplicitazione di aspettative rispetto al corso)
- osservazione riflessiva. In questa fase la persona formula quel need e lo rende esplicito e chiaro a se stesso. Le sue sfide, le sue necessità, ed insieme a queste la motivazione a cercare soluzioni nuove (buona pratica di docenza infatti è quella di cominciare con forme di auto-analisi. Ce ne sono di molte forme e modalità).
- Concettualizzazione astratta. Questa è la fase di massima ricezione contenutistica. E’ qui che la docenza d’aula trasferisce modelli e strumenti utili alla persona
- Sperimentazione attiva. La call to action di cui ho detto prima. Non per niente le forme d’aula più moderne sono sempre meno one way, e sempre più laboratoriali (project work di gruppo, role playing, esercitazioni), ed hanno lo scopo di operare un vero “allenamento” d’uso degli strumenti e approcci che si stanno apprendendo
- il secondo modello è quello dell’adagio “Sapere > Saper Fare > Saper Essere”
Questo framework richiama in parte il learning cycle di Kolb, ma anche lo compendia laddove l’autore si è si concentrato sull’apprendimento come esperienza individuale. Questo modello concepisce un’esperienza d’apprendimento che vede la persona attraversare tre dimensioni
- il Sapere che è la dimensione contenutistica e concettuale
- il Saper Fare che è la dimensione sperimentale di quei concetti e strumenti
- il Saper Essere che è la dimensione sociale in cui la persona riporta quei saperi che ha appreso per consolidarli con i suo gruppo professionale
Notare come a questo modello può essere sovrapposto quello del social learning cycle (CSM > LMS > Learning Community)
Ora se sono riuscito a rappresentare un modello cognitivo/sociale dell’apprendimento, e se questo è – come credo – convincente, il tema è come fare a non spezzare questi elementi quando andiamo a destrutturare l’aula in cui queste dimensioni, come abbiamo visto, sono sempre presenti.
La progettazione di un sistema di Social Learning in sostanza deve:
- sollecitare la persona a definire il contesto in cui inserire quell’apprendimento, portandolo a raccontare il suo contesto, facendo domande che lo aiutino a definire il need (es.: attraverso un pre-work con docente, o forme di blog in cui fare storytelling)
- trasferire contenuti e modelli che lo aiutino a riformulare il suo set di opzioni (qui il digitale arricchisce: link di post dalla rete, video tutorial, ecc…)
- chiamare all’azione. Servono modalità challenging in cui simulare la realtà e usare gli strumenti trasmessi nella fase precedente. Questa è la vera fase di training, di sperimentazione ed allenamento. Simulatori, mappe cognitive, modelli trial and error. Ma anche gaming che introducano già la dimensione sociale di risoluzione del problema
- mettere a disposizione forme di learning a gruppi facilitate dal docente. Penso ad aule virtuali, flip classroom digitali, open discussion virtuali, teamwork remoto. Anche qui il digital arricchisce, ma in parte cerca di richiamare l’aula -ancorché non fisica – che di per se ha funzione insostituibile
- attivare la learning community per riportare quell’apprendimento nella dimensione social e professionale, in cui le persona faranno ridefinizione di quei concetti appresi per portarli di nuovo nel “loro mondo” reale
Insomma, quello che serve è una presa di coscienza forte sul fatto che anche qui, come in tutti i fronti digital e social che si aprono, è cruciale la visione people prima di quella tecnologica. Manager, (Social)HR, responsabili della formazione, esperti di didattica, formatori, devono operare dentro quel processo di learning in chiave cognitiva e sociale, e allora le tecnologie possono offrirsi come uno strumento di stimolazione davvero nuovo e potente.
Quindi, per riprendere il titolo del post, quando si progetta una anche solo parziale smaterializzazione dell’aula bisogna avere il processo d’aula stesso in testa, e poi tradurlo negli strumenti e nelle modalità social&digital.
Che ne dite, si può fare?
3 risposte
L’ha ribloggato su flaneurkh.