In un predente post ragionavo sulla ridefinizione del rapporto individuo-organizzazione, sottolineando come la relazione di scambio che lega questi due soggetti andasse dissipandosi sotto i colpi della modernità.
Gli elementi che erano al centro di quello scambio nel passato (knowledge, crescita professionale, esperienze), garantite dall’azienda alla persone come corrispettivo non monetario al suo extra-effort, oggi non sono più nella vera disponibilità dell’azienda. Ma più spesso già nelle mani dell’individio.
Lì chiudevo dicendo che lo scambio contemporaneo avrebbe quindi dovuto prevedere elementi quali autonomia, autodeterminazione, networking, free sharing. L’azienda diventa, in questo schema, un hub che abilita gli individui a mettersi in relazione ed affrontare insieme le sfide che hanno sul tavolo.
A seguito di quella riflessione l’amico Nicola Palmarini twittava il mio post e proponeva l’acronimo BYOK. Derivazione del più conosciuto BYOD (bring your own device) BYOK sposta l’oggetto sull’individual knowledge (bring your own knowledge), come fattore essenziale di quel processo di revisione dello scambio di valore fra individuo e organizzazione.
Nell’ambito di un progetto recente mi sono sentito raccontare la storia (non più originalissima in effetti) della scoperta di una competenza linguistica, il russo, che era presente in azienda ma sconosciuta per molto tempo. Così, mi confidava il mio interlocutore, “abbiamo per anni speso del denaro per fare delle traduzioni di documenti indirizzati a quel mercato in outsourcing, mentre la risorse era già dentro”.
Questa storia non la leggo come una disfunzione specifica di quell’azienda, ma come un “baco” di sistema: essendo il knowledge ritenuto di valore dall’azienda solo quello prodotto all’interno, tutte le risorse individuali non immediatamente riconducibili a quello stanno fuori dal quadrante di HR e management in generale.
Ma oggi queste risorse cambiano tutto. I talenti individuali, anche più lontani a quelli che sono ritenuti il core knowledge organizzativo, si offrono come soluzioni a problemi emergenti, sia per velocità di approvvigionamento sia per costi.
E nello schema di relazione discusso sopra diventano un elemento di scambio che va a sostituire o complementarizzare gli altri. La persona oggi non ha solo bisogno di “prendere” qualcosa dall’azienda per perfezionare quella relazione, ma paradossalmente (ma non è un vero paradosso a conti fatti!) di “dare” quello che ha maturato nella sua esistenza complessiva, per trasformarlo in elemento di valore nei processi aziendali.
Sul piano pratico c’è un tema di conoscibilità di questi saperi da parte di HR e management, che devono dotarsi di sistemi più efficaci rispetto agli assessment tradizionali.
Ma a pensarci bene poi il sistema più efficace si fonda su…domanda ed ascolto.
Senza voler banalizzare la cosa il cuore di questo processo è proprio la domanda: “cosa sai fare, quali sono i tuoi talenti personali, cosa fai nella tua vita privata che ci vuoi raccontare?” Insomma si tratta di aprire un conversazione con le persone che frantumi un po la logica dei cappelli esistenziali. E se qualche valore c’è da dare questi emergerà.
L’altro pezzo di questo modello è l’ascolto, non solo nel rapporto one to one fra persona ed HR/manager, ma anche nell’ambito delle conversazioni che gli individui fanno fra loro.
E qui è chiaro che la tecnologia digital&social offre una grande opportunità. Gli individui messi in collegamento fra loro, anche su processi core, tendono ad offrire storie più personali a supporto di azioni di problem solving. Qui un buon listening da parte dei community enabler (a tutti i livelli) genera un campo di emergenza dei talenti che diviene irrinunciabile.
Quindi, approccio alla domanda “larga” sulla persona da una parte, e ambienti che abilitano le conversazioni e lo scambio da cui estrarre storie di talenti dall’altra, possono diventare opportunità per l’organizzazione.
A chiusura mi viene da dire che serve comunque un nuovo mind-setting in ottica HR (verso il SocialHR): il talento in questo quadro non è più nel paradigma che l’azienda ha creato a priori come best practice role formale, ma è appunto emergente, viene a galla. Nel primo schema si costruisce il paradigma di talento e poi si scandaglia l’organizzazione per trovare quelli che vi si avvicinano. Nel secondo, con maggiore serendipity, si raccolgono i saperi e i saper fare e ci si domanda come si possono usare per accrescere il valore organizzativo.
Quindi ok per il “porta il tuo device in azienda”, ma ancora di più “porta il TUO sapere”.
Che ne dite?