LE ORGANIZZAZIONI SONO QUELLO CHE SANNO
Su questo tema in effetti non esiste più dibattito da molto tempo. Il sapere caratteristico di ogni organizzazione è il propulsore del suo vantaggio competitivo.
La letteratura è corposa su questo tema. Già negli anni ’90 i promotori della cosiddetta Knowledge-based theory indicavano nel Sapere organizzativo la prima e vera risorsa strategica. Questo perchè il Sapere è difficile da replicare immediatamente, incorporare, per mera via imitativa essendo l’insieme di modelli culturali, processi caratteristici, documenti, setting organizzativi.
L’assunto di questo approccio di pensiero è però quello del catturamento e organizzazione del sapere per via interna. Insomma, scopo del management è quello di raccogliere, catalogare e mettere a disposizione questo sapere all’interno per reiterare il vantaggio che sta generando. Altro aspetto è il presidio del fortino: il sapere non deve uscire dall’organizzazione per non essere replicato, anche se in tempi lunghi, dai competitor
Un sistema di pensiero successivo è però quello chiamato: organizational learning theory.
Questo approccio si allinea al precedente per la visione di risorsa strategica che il knowledge assume nelle organizzazioni moderne. Si distingue però circa la tesi del catturamento: di fatto impossibile nella totalità in quanto questo sapere si muove, per molta parte, nell’ambito dellle relazioni informali organizzative.
Il focus di questa teoria è sul processo di adattamento che le organizzazioni sarebbero in grado di opporre al cambiamento di contesto esterno. Questa capacità organizzativa di sopravvivvenza, secondo gli autori, deve fondarsi su una dimensione di apprendimento (learning) che somiglia molto a quello dei sistemi complessi.
Il sistema è quindi in grado di apprendere continuamente, trovare soluzioni a problemi nuovi, innovare a fronte di una pressione esterna che lo chiama all’adattamento. Per questo non è più possibile guardare al sapere organizzativo come ad un “archivio”, ancorché ben strutturato, ma per sua natura lento nell’aggiornamento.
In questo senso il management più che catturare e “difendere” il sapere deve operare per liberarlo al suo interno, farlo scorrere.
KNOWLEDGE STOCK E KNOWLEDGE FLOW
In effetti le due teorie sembrano indicare l’esistenza di un knowledge formalizzabile e archiviabile (stock). E uno non formale, liquido, adattivo (flow).
Per chi conosce le organizzazioni non è così strano pensare a queste due dimensioni del sapere organizzativo come realmente esistenti. Forse però non pienamente interagenti.
Certo perchè esiste tutta un opera di raccolta di best practice, formalizzazione di processi efficaci, definizione di modalità e format che da un ventennio è funzione organizzativa a tutti gli effetti. Non mi riferisco solo al ruolo del knowledge management dagli anni ’90 sempre più presente in azienda. Ma anche di tutta una serie di pratiche interne ai dipartimenti che hanno come scopo la raccolta sistematica di elementi di conoscenza.
Non di meno le tecnologie dell’informazione hanno consegnato alle organizzazioni una leva ulteriore e più efficiente per operare quella raccolta. Pensiamo ai knowledge management tool o alle Inranet di prima generazione.
Meno riuscita invece è la seconda prescrizione (organizational learning), di liberazione del sapere di flusso.
In effetti il confronto con una dimensione così immateriale ha certamente generato qualche confusione nel management. Come si cattura ciò che per sua natura è invisibile? Se sta sul piano dell’informale, come lo si individua? E se anche questo informale venisse individuato, la sua emersione non ne annullerebbe la sua natura di flusso?
Insomma, forse non v’è stata tutta questa sofisticata diatriba nelle aziende, ma di fatto questo elemento è rimasto sotto traccia, non esplorato. E quindi l’interazione fra lo stock ed il flusso rimasta del tutto assente.
D’altra parte il sapere di flusso è più che mai importante se non si vuole imbrigliare oltremodo l’organizzazione in un sapere cristallizatto, e quindi talmente “robusto” da non essere capace di rispondere in chiave di adattamento.
IL KNOWLEDGE AL TEMPO DELLE COMMUNITY
Come affermo da tempo le organizzazioni sono community.
Inutile ora riassumere tutti gli assunti che mi portano a sostenerlo, e di fatto chiunque oggi condivide criteri quali: informale, network, relazioni, conversazioni. Tutte dimensioni tipiche della community.
Trovo peraltro sempre meno diffidenza nelle aziende stesse, che sempre di più sono portate ad accettare come quelle dimensioni siano reali e non così pericolose come si sarebbe potuto pensare nel passato.
Nello schema organizzativo l’abilitazione di una community, di pratica, di interesse, con focus più o meno operativi o strategici, opera di fatto parte di quella liberazione che la organizational learning theory riteneva necessaria al sapere organizzativo.
Le community mettono le persone in rete fra di loro. Generano un campo di connessioni in cui queste fanno fluire nozioni, idee, scoperte, esperienze, che in qualche modo rispondono a necessità operative quotidiane. Nel fare questo producono un sapere di flusso costante.
Notoriamente i sistema di Social Learning si fondano su tre dimensioni:
- CMS > content management system: sono sistemi di archiviazione, catalogazione e ricerca che mettono l’utente al centro. E’ lo stesso utente che conferisce dati, così come li cerca. Di fatto questo è la dimensione di knowledge stock che abbiamo descritto precedentemente
- LMS > learning management system: si tratta della dimensione digitale di cui la formazione oggi dispone. Esperienze interattive su piattaforme e tool che rendono l’apprendimento più decentrato rispetto alle forme d’aula tradizionali ed in qualche caso, fra i migliori, cognitivamente più efficace
- Community > la terza dimensione è quella della community, nella quale i learning object vengono esplorati dai partecipanti in chiave di scambio di esperienze sul campo. Questa è certamente la dimensione di knowledge flow di cui abbiamo detto
Insomma il sapere organizzativo può fruire oggi, nel paradigma della social organization, di uno strumento capace di fare emergere quel flow senza estirparlo, per poi farlo interagire con lo stock in una fertilizzazione continua che genera adattamento su una base solida.
Non mi addentro nelle dinamiche di tipo tecnico che certamente devono essere considerate perché una esperienza di community produca questo risultato. E di certo ve ne sono in gioco molte.
Ma restando sul piano più sociologico questa è certamente una opportunità che l’intersezione fra umano e tecnologie abilitanti di tipo social ha messo a disposizione delle organizzazioni contemporanee e del SocialHR che diviene architetto della social organization
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