In questo paio di mesi sono stato particolarmente impegnato in laboratori manageriali con focus su temi legati all’organizzazione e alla “gestione” delle persone.
L’aula mi fornisce sempre imponenti spunti di riflessione, e lo dico senza retorica. Esco con segnali significativi sul come si vive nelle organizzazioni oggi e questo é in beneficio perché in qualche modo complementa la mia visione di consulente sempre un po “sul margine” dei sistemi organizzativi; un po dentro e un po fuori (aspetto di per se benefico per gli interlocutori con i quali il consulente ha a che fare, altrimenti non potrebbe sensibilizzarlo ad altre chiavi di lettura).
Uno degli aspetti che emerge continuamente in questi laboratori, non da oggi per la verità, é la richiesta dei partecipanti di formule in qualche modo pronte all’uso, di tecniche gestionali, modalità standardizzate che permettano loro di governare la complessità nella quale, senza ombra di bubbio, si intende, sono immersi.
Ora, premetto che personalmente penso sia di fatto molto ingenuo pensare di poter “semplificare” l’organizzazione come si é creduto di poter fare fino ad oggi, con forme di banalizzazioni cognitive (pensate all’organigramma per esempio) capaci solo di dare conforto, al limite, ma di fatto non di supportare una visione chiara del fenomeno.
Ora immagiamo come si possa pensare di praticare questo approccio quando ci troviamo di fronte alla maggiore forma di complessitá organizzativa: le persone.
Ma la domanda di semplificazione è legittima, e viene promossa continuamente e sollecitata da una miriade di letteratura da scaffale di autogrill, che con la retorica delle “10 regole” buone per ogni stagione ancora oggi fanno molto bene…a chi li scrive.
Ma guardiamo al contesto degli ultimi decenni: testi, fonti dalla rete, formazione da catalogo. Quanta offerta c’è a disposizione sul come “far fare alle persone quello che vogliamo”? Una miriade in effetti.
Ora apriamo le porte delle aziende. Cosa vediamo? Capi e team che vanno d’amore e d’accordo? Collaboratori soddisfatti, team spirit ovunque? Manager perfettamente a loro agio in questo ruolo? A me non pare davvero…
Eppure questa formazione delle tecniche del buon leader ha pervaso le organizzazioni, almeno quelle piú attrezzate in ambito di sviluppo organizzativo e del capitale umano. Chi oggi presidia un ruolo gestionale ha diverse ore d’aula su questi temi.
Certo, l’altra ipotesi é che le persone siano per la maggior parte inette a ruoli di guida. Ma più probabilmente é proprio il concetto di guida a non trovare piú asilo nelle organizzazioni moderne.
Organizzazioni che sono più sistemi che strutture hanno bisogno di ruoli diversi rispetto al passato.
Così la domanda resta davvero sul tavolo con tutta la sua forza. Come fa un capo formale a guidare, governare, gestire al meglio le persone del suo team? Come si diventa leader?
Ma forse la domanda è più sostanziale: cos’è la leadership oggi?
LA VIA VERSO LA LIQUID LEADERSHIP
In questo bellissimo video Simon Sinek ci parla di una leadership visionaria e generativa. Il leader ispira, crea scenari di senso entro i quali le persone possono riconoscersi, auto-motivarsi, e mettersi in moto.
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Non c’è dubbio davvero che questa sia la forma di leadership più magnetica che esista, capace di generare una followership potente.
Certo, pur ammettendo che in ogni persona vi sia una componente di questo tipo, di creazione di senso molto alta, da qui a dire che chiunque possa praticare una leadership così mi pare più azzardato.
Non mi sto piegando alla retorica del “leader così si nasce” (molto lontano dalle mie convinzioni), ma “leader così si diventa a fronte di un percorso umano e personale che ha le sue specificità nell’ambiente in cui hai vissuto, persone che hai incontrato e ti hanno ispirato, esperienze che hai fatto”, questo si.
In quest’altro contributo David Logan sposta l’attenzione su un altro piano: quello della natura dei follower (tribù) che offre al leader spunti di ragionamento sulle azioni da compiere. Ma anche una sorta di percorso evolutivo per agevolare una transizione del gruppo fra diverse fasi progressive.
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In questo quadro il leader tribale è un antropologo in qualche modo (dimensione che amo molto questa), che sa guardare al gruppo/i che guida e ne sa leggere gli aspetti culturali, sociologici, rituali. E attraverso questa lettura specifica del gruppo ne sa valorizzare gli elementi di forza, attenuare quelli distruttivi, e in qualche modo traghettare la tribù verso una crescita beneficia per esso e per il sistema nel quale è inserito.
Ora questa forma di leadership a differenza della prima ha più una natura facilitativa che conduttiva. Si fonda sulla capacità di leggere segnali deboli nelle relazioni dentro e fuori dal team, e di ricondurli ad una sorta di mappa culturale (sempre imperfetta si intende), che lo aiuta nel scegliere le azioni da mettere in campo.
In questa prospettiva il leader ha “margini” maggiori di lavoro su di se, potendo trovare nella letteratura sociologica, antropologica, ma anche nella narrativa di eccellenza (nella poesia?) spunti che lo possono aiutare ad interpretare il team e se stesso.
La ragionevolezza di questa tesi sta nella contrapposizione all’ambiente nel quale abbiamo immerso i leader in formazione, che hanno avuto fino ad oggi a disposizione prospettive alle volte “ingegneristiche” ed altre psico-individuali su cui fondare le proprie competenze. E il paradosso sta proprio nel fatto che la persona non è una macchina, e non è neppure (a maggior ragione nel team, nell’organizzazione) una molecola solitaria.
Si è studiato molto quindi ma con strumenti non ottimali per comprendere il fenomeno delle “persone in relazione in un contesto”.
In quest’altro video Fields Wicker-Miurin ci porta alla scoperta di esempi di leadership in azione davvero interessanti.
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Ci racconta 3 storie di persone capaci di imprimere un cambiamento nel sistema nel quale vivono attraverso l’azione appunto, il movimento. Persone piene di “sogno” certamente, ma anche hanno prodotto un cambiamento in primisi su se stessi, e influenzato il proprio ambiente con le azioni più che con le parole.
Leader che fanno da “ponte” (termine usato dalla speaker) fra le proprie culture ed altre, spesso più forti e strutturate delle proprie. Che hanno imparato e si sono cibate di pensiero laterale per rispondere a problemi irrisolti in modo del tutto nuovo.
Anche qui vedo una forma di leadership più sensibilizzabile “qui ed oggi” da chi vuole apprendere a guidare il cambiamento nel proprio team, gruppo organizzazione. Fondandosi su una azione totalmente nel “cono di potenza di ognuno“: se stessi. Agisco su di me, stimolandomi attraverso esperienze forti, facendomi fertilizzare da altro, abbattendo i miei pregiudizi. Le azioni diventano poi lo strumento con il quale genero followership intorno a me.
Qui arriviamo alla modalità di leadership che cerco di promuovere in ogni occasione mi sia concesso di farlo. La liquid leadership.
Questa prospettiva parte da alcune considerazioni semplici da capire. Forse più difficili da accettare, in ragione del paradigma che impronta l’idea del capo da sempre.
- io non sono al di sopra del sistema che guido. Questa distorsione deriva dal fatto che la posizione formale sembra collocarmi fuori, sopra. Ma dal punto di vista sostanziale il capo/leader sta dentro, eccome, al sistema che cerca di guidare. In ragione di questo è sensibile alla sua cultura, ai pregiudizi che si praticano, alle modalità di relazione che la improntano. Questo bagno di realtà si deve ad alcuni antropologi del ‘900 che dovettero ammettere che la loro presenza osservativa ancorché continuativa nei gruppi, cambiava alcune delle dinamiche originarie, ma influenzavano anche le loro prospettive di osservazioni; insomma, non erano neutri sulla tribù, ma la cambiavano; e questa cambiava loro.
- io non sarò mai il leader “perfetto”. Intendendo come perfetto quel leader capace di praticare tutte quelle declinazioni che abbiamo descritto sopra. Impossibile pensare ad una leadership che sia emozionale/visionaria insieme ad una più osservativa/operativa nella stessa persona, per la ragione che queste si fondano su attitudini molto diverse fra loro
- io non sono il “sistema solare” del gruppo. Le persone sono in relazione fra loro quotidianamente, su piani operativi, supportivi, di costruzione di senso. Tutte pratiche che i gruppi sociali attivano in modo naturale. In questo quadro è ingenuo pensare che il leader sia al centro di tutte queste dinamiche, che le guidi tutte, che interagisca su tutti quei piani. Le persone formano i propri network, le proprie relazioni di valore, e diventano l’una per le altre leader e follower a seconda dei contenuti delle relazioni: in modo emergente, fluido e autonomo.
In questo quadro il leader liquido è quindi capace di “tirare indietro” più che di governare ogni aspetto.
Non teme le leadership naturali che si generano nel gruppo (se funzionali e facilitative), non le ostacola quanto piuttosto offre loro il contesto perché generino valore.
Non presidia immancabilmente tutte le dimensioni necessarie alla vita del gruppo (coordinamento tasks; formazione on the job; costruzione di sapere collettivo; relazioni interpersonali; creazione di senso), se vede che diverse persone nel team già compiono in modo naturale una o alcune di queste funzioni. Il leader liquido sa far valere la forza delle complementarietà che vi sono nel team per trasformarle in risultati che sono poi del team stesso.
Certo, qui abbiamo un profilo di leader meno eroe valoroso, meno guida carismatica, meno centro dell’universo. Ma piuttosto abilitatore di un sistema fatto di persone responsabilizzate, che si mettono in relazione fra loro per fare bene insieme.
L’ultimo tassello e, secondo me competenza necessaria a questo profilo, è l’azione di storytellling che il leader liquido deve praticare. Raccontare al gruppo ciò che questo ha fatto è lo strumento più potente di apprendimento e motivazione per le persone implicate in quella storia.
Il leader liquido è promotore di una leadership diffusa. Ma per riuscire deve, paradossalmente, “fare meno”, lasciare fare di più, con tutti i rischi che questo comporta si intende.
Ecco cosa deve metterci in prima persona il leader liquido: il coraggio!
6 risposte
Ciao Alessandro, complimenti per il post.
Probabilmente la sintesi dell’ultima riga è anche la spiegazione per cui ci sono così pochi leader liquidi!
Grazie Alessandro.
In effetti alla fine molta di questa capacità di controllare meno e abilitare di più pare sia soffocata da una sostanziale paura a praticare quella che chiamavamo delega e che oggi chiamiamo partecipazione attiva.
Alla fine è paradossalmente più sicuro tenere tutto nelle mani (e magari denunciare la sofferenza di essere “soli”) piuttosto che aprire alla fiducia e responsabilizzazione.
E certo…la tematica si estende a molti campi, non solo a quello delle organizzazioni di business.