Voglio provare a fare qui qualche riflessione sul tema della scelta/decisione nelle organizzazioni.
Oggi come ieri la decisione è aspetto delicato e spesso affrontato con toni anche retorici . Ci si concentra infatti quasi sempre sulla capacità decisionale, non tanto di processo. Capacità posseduta da alcuni e sconosciuta da altri, competenza sostanzialmente “incorporata” nel leader contemporaneo.
Mi restano sempre molti dubbi circa questo mito dell’uomo solo al comando, che carica su di se la responsabilità di portare l’organizzazione, o il pezzo che presidia, verso il successo. O quantomeno di proteggerla dal fallimento.
Sono convinto invece che i momenti decisionali siano solo l’acme di processi cognitivo/esperenziali che permeano il sistema, nei quali i contributi sono molto più articolati.
Ma andiamo per gradi
La decisione è una funzione pragmatica che segue un processo di scelta, ecco perché comincio questa riflessione con due contributi sul tema della scelta.
Qui il primo
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Nel suo speech Barry Schwartz si sofferma molto sulla difficoltà generata dalle opportunità: più queste sono alte meno l’individuo riesce ad esprimere una scelta compiuta.
Devo dire che mentre guardavo il contributo ho continuato a sentire un disagio sottotraccia, che non sono riuscito ad inquadrare subito. Ho dovuto rivederlo più volte prima di capire dove stava l’aporia che non riuscivo a cogliere: per Schwartz la scelta è un processo del tutto individuale, nel quale quest’ultimo sembra del tutto neutro rispetto agli oggetti, le opzioni, da confrontare.
Non condivido affatto questa idea. La persona è una storia fatta di esperienze di scelta che certamente lo influenzano. Non solo, ma attitudini e propensioni restringono ulteriormente il campo di scelta possibile.
Penso all’esempio da lui portato circa i jeans di taglie, modelli diversi, nei quali si perde letteralmente. Questo gli fa dire che se i jeans fossero stati di due tipi avrebbe potuto scegliere con facilità. Ma credo che scelga la via più semplice (oltre che formulare una tautologia).
In realtà si capisce chiaramente che non si tratta di un “amante” di quell’abbigliamento (basta vedere com’è vestito durante lo speech), e questo non può essere neutro nel suo approccio alla scelta. Se con lui fosse entrato un adolescente ben informato sui modelli “cool” da indossare, questi avrebbe scelto facilmente: appunto perché pre-indirizzato. Paradossalmente la mancanza di un campo minimo di pre-giudizi sui jeans non ha permesso a Schwartz di scegliere senza patema d’animo.
Inoltre lui ha praticato eccome una scelta: non ha comperato ed è uscito.
Qui traggo il parallellismo sulla complessità decisionale nelle organizzazioni: la complessità attuale fornisce troppe domande e moltitudine di opzioni possibili. Contesto questo scenario: vera la varietà delle domande, ma non delle opzioni disponibili. ma vedremo poi.
Qui di seguito altro contributo.
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In quest’altra prospettiva Sheena inquadra il processo di scelta dentro un campo più ampio che considera anche l’appartenenza culturale, la quale fornisce modelli, perimetri cognitivi e, in chiave positiva, strumenti per scegliere.
Insomma la scelta è agita all’interno di cognizione che non è del tutto individuale, e neppure completamente neutra. Non confrontiamo solo le opzioni fra loro rispetto ad un astratto concetto di utilità, ma consideriamo anche le scelte che credo di “poter” praticare, e quelle che ho praticato nella mia esperienza passata che mi hanno dato qualche ancoraggio. E poi c’è il portato generato dalle scelte operate dal contesto a me vicino: parenti, amici, network, il quale determina effetti anche su di me
…ENTRIAMO NELL’ORGANIZZAZIONE
Ora, aprendo il cancello ed entrando nell’organizzazione vorrei capire come si praticano le scelte, come si prendono le decisioni nella realtà. In fondo buona parte del portato burocratico che forma il paradigma vigente sulle organizzazioni ruota intorno al processo decisionale: chi lo pratica? entro quale portata? con quali effetti?
La risposta a queste domande non è banale, in quanto fonda il disegno della struttura formale di ruoli e relazioni fra questi che determina l’organizzazione così come la conosciamo.
Tenendomi lontano dalla volontà di “fare letteratura” , e a partire dalla mia personale esperienza etnologica sul campo, penso che l’esperienza della decisione nelle organizzazioni si possa strutturare come nel grafico qui di seguito
La struttura qui rappresentata descrive la decisione su più livelli russelliani (tipi logici), nei quali un livello più alto ingloba quello precedente, determinando il quadro di azione possibile.
Vediamoli:
- al primo livello troviamo le decisioni operative: queste sono in realtà pre-determinate in qualche modo. L’attività di definizione del processo operativo ha già pre-pensato molte delle scelte possibili da praticare, e la curva di esperienza ha già messo a disposizione molte delle risposte ai problemi più tipici di quel processo. Insomma, qui non v’è molto spazio di decisione se non laddove si presentasse una variazione sostanziale del reale rispetto al processo così come disegnato
- al secondo livello troviamo le decisioni organizzative: queste sono scritte “altrove”, nel senso che rispetto ai processi di prima le decisioni organizzative hanno maggiore estemporaneità e vengono prese in ragione delle deviazioni ripetute di cui parlavamo prima. Laddove processi tipici presentassero continue sollecitazioni a cambiare, la rilettura dell’impianto organizzativo diventa necessaria per dare adattabilità al sistema. Qui vi è maggior spazio di disegno, potendo agire su un piano di contesto più ampio che ingloba processi, ruoli, relazioni
- al terzo livello troviamo le decisioni prospettiche: queste rispondono alla necessità di programmare azioni di medio-lungo termine che diano narrazione all’organizzazione. Business plan, programmazioni di sviluppo delle direzioni, forecast. Tutti strumenti con i quali l’organizzazione sceglie il suo corso futuro. Qui entriamo più che mai nel campo delle scelte in senso stretto, essendo il futuro innanzitutto da opzionare più che programmare in senso tecnico.
- al quarto livello troviamo le decisioni immaginative: capisco il paradosso semantico tra decisione (pragmatica) e immaginazione (aleatorietà), ma di fatto è solo apparente. Già nel tipo logico precedente siamo nel campo della prospettiva ed il cuore deve essere buttato oltre l’ostacolo. Qui però l’organizzazione si ricollega alla propria visione, la ragione d’essere per oggi e per domani. Si tratta di una dimensione di autoconsapevolezza importante nelle quale si definiscono le ragioni di esistenza, e in questo senso si sceglie…chi e come si vuole essere. La decisione per eccellenza, che non trova supporto dai numeri, andamenti, e quindi nessun ancoraggio, ma neanche limite se vogliamo.
Nel descrivere questi quattro livelli ho sempre parlato di organizzazione e non di singolo, non perché penso a questa come ad un organismo pensante, ma perché le scelte totalmente individuali in sè dal mio punto di vista si riducono a pochissimi e forse inesistenti casi.
L’asse verticale vuole proprio rappresentare questa dimensione: quella dell’ampiezza della partecipazione alla decisione.
Seguiamo la struttura:
- nel primo livello i processi (e intendo i processi reali, non solo quelli scritti, ma anche quelli effetto dell’apprendimento informale) sono padroni. Il capo interessato da una escalation di fatto sceglie fra opzioni possibili nell’ambito dei processi stessi, non pratica grandi voli pindarici alla ricerca di soluzioni creative. Lo sanno bene i consulenti del cambiamento (che brutto titolo!) che proprio in questa perizia tecnica fatta di esperienza sul campo trovano il macigno insuperabile nei momenti di cambiamento organizzativo. Di fatto qui i capi diretti non avrebbero nessuna necessità di agire la decisione in prima persona, i loro collaboratori (o alcuni di loro) hanno essi stessi la perizia necessaria a prendere quelle decisioni; e spesso lo fanno infatti
- a livello delle decisioni organizzative quello che osservo è che le competenze a molti livelli siano a dir poco sottili. Le competenze manageriali sottovalutano costantemente il disegno organizzativo come elemento diretto di generazione di efficacia. L’organizzazione è una sorta di epifenomeno che avviene mentre operiamo. Di fatto i punti di riferimento di chi opera sul’organizzazione sono da una parte modelli teorici appartenenti alla tradizione e letteratura. Dall’altra si ripropongono formule appena rivedute di precedenti modelli. Insomma l’effetto è che anche a questo livello i capi non operano decisioni nel senso proposto da Shwartz: asettico, neutro, creativo in qualche modo
- sul piano delle decisioni prospettiche va detto che il capo non ha mai le informazioni sufficienti per operare reali decisioni. Anche qui troppo spesso su questo piano le decisioni si fondano sul controllo di gestione che produce numeri sui quali fare previsioni. Ma oltre al palese limite di questo modello incrementale, incapace di puntare su uno sviluppo coraggioso, di fatto, ancora una volta, non siamo di fronte ad una decisione neutra. Per quei capi più aperti che invece sanno di avere bisogno di dati più etnografici da affiancare alla freddezza dei numeri, ecco che il rapporto con i collaboratori, veri detentori di queste informazioni, diventa cruciale. E la decisione è di nuovo più la capacità di produrre una trama collettiva che di guardare a delle opzioni in modo freddo e asciutto e poi decidere.
- sul piano della decisione immaginativa invece manager, capi, si affidano spesso alla formulazione di consulenti spesso blasonati che non aiutano le imprese a “vedersi” nel proprio futuro, ma letteralmente lo scrivono per loro (parere del tutto personale, naturalmente). Insomma di nuovo la decisione è fuori in qualche modo
Ora quello che penso è che ad ogni livello vi sia nella realtà una sostanziale con-partecipazione indiretta di mote altre persone a diverso titolo partecipanti all’organizzazione. Ma questa realtà può e dovrebbe essere opportunamente portata a livello di modello decisionale interno, per poter produrre effetti di valore.
Ma in questo quadro il capo quindi?
Lo dichiaro subito: il dibattito anche un po moralista sulla cosiddetta perdita di competenza decisionale da parte dei leader, capi, manager, mi appassiona poco. Io penso che non si sia semplicemente più li, che le organizzazioni debbano puntare come detto a sollecitare processi decisionali dal basso, auto-generantesi laddove si produce la necessità di decidere, e da parte di coloro che sono avranno effetti da quella decisione.
Per me, quindi, i capi devono creare e garantire le condizioni di co-decisione, stimolando quella partecipazione che poi per altre vie, e con toni retorici, si richiede alle persone sotto titolo diventati vuoti come “motivazione”, “empowerment”, “engagement”.
Attraverso la delega al livello decisionale; l’ingaggio in quello organizzativo; la facilitazione in quello prospettico, e l’ispirazione in quella immaginativo. Insomma i capi abilitano le persone alle decisioni creando le condizioni facilitanti e supportandole.
Naturalmente ciò che trama ognuno di questi approcci, e li lega insieme da un tipo logico all’altro è la conversazione. Attraverso questa il capo delega, ingaggia, facilita, ispira, ma senza sostituirsi mai, legittimando la partecipazione attiva.
La critica potrebbe essere che la conversazione può diventare una forma di perdita di efficienza, una palude che ingabbia la prontezza e la reattività organizzativa. Ma il modello che ho proposto sopra dovrebbe chiarire come le decisioni più critiche in termini di tempo siano quelle operative che di fatto si fondano sulla delega e sulla curva di esperienza. Ma la conversazione qui non è estemporanea, ma dentro il day by day. Il capo aiuta le persone a sostanziare le best practices e poi delega le persone a decidere entro quel perimetro. Per il resto invece, con diversi livelli di partecipazione, si tratta di momenti meta-organizzativi nei quali una buona conversazione fa tutt’altro che perdere tempo, producendo idee, opportunità, engagement. Quindi più efficacia.
Il tema quindi è quali competenze per il capo facilitatore per le quali rimando al precedente mio post WYSY (never) WYG
Riassumendo:
- le decisioni non sono un processo neutro ed individuale, ma condizionato e portato delle relazioni tra persone nell’esperienza organizzativa
- a diversi livelli le persone possono co-decidere senza determinare cadute di efficienza, ed anzi portando maggior valore
- i capi non devono “tornare ad essere decisionisti”, ma diventare degli abilitatori della decisione
I SOCIAL TOOLS COME ABILITATORI
Ora qui con tutta evidenza i social tools possono diventare davvero uno strumento efficace non solo per le persone, ma anche per il capo stesso che attraverso questi può stimolare continua conversazione e con questa partecipazione al processo decisione.
Qui sotto propongo un setting assolutamente esemplificativo declinato nei tipi logici di cui sopra, che però approfondirò meglio in successivo post.
Chiudo linkando una bella recensione di Marco Minghetti su un libro che focalizza la sua analisi proprio sul tema della decisione nelle organizzazioni, e la sua ricaduta sul capitalismo moderno: curare la miopia decisionale per salvare il capitalismo? Si, ma con la social organization
11 risposte
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come al solito, sei esaustivo, grazie!
Grazie, sono riflessioni che ho fatto decantare per molto tempo. 🙂
Bellissimo post, profondo, ricco di spunti e di cui condivido la conclusione di fondo. Tutti gli enabler social che ci possiamo immaginare dal basso acquistano un senso se c’è un indirizzo, un “sogno”, un “perché” al qualche credere e al quale e per il quale dare risposte, altrimenti ci troveremo solo masse di lurker. E quel sogno lo deve dare, lo deve far maturare, lo deve plasmare il “capo”. Il punto sicuramente è la carenza di capacità di quei capi di parlare di sogni e di dare visioni. E soprattutto di farlo in maniera credibile. Questo deriva da una profonda crisi della leadership, dovuta anche a un concetto di manager omologato al concetto di vendita: qui alcuni hanno confuso la leadership con i pezzi venduti a fine quarter altri con in numeri di follower su Twitter. I risultati dell’indecisione (ne parla anche la Di Cristofaro Longo nel suo pamphleet “L’arte di decidere”) e dell’assenza di carisma sono sotto gli occhi di tutti accentuati dalla carenza di Olivetti e Tchou e parallelamente dall’osannamento di blazer-Jobs, un nome per tutte le occasioni e le stagioni. Secondo me (ne parlo nel mio libro “Lavorare o Collaborare?” e qui http://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2012/10/collavorare-un-nuovo-verbo-nello-spirito-dello-humanistic-management.html con Minghetti) c’è spazio per una nuova stagione di “collavorazione” capace di riprendere fiato e coraggio su quei valori che erano nostro patrimonio e abbiamo saputo sperperare e bruciare in mezzo a questa rincorsa a modelli che non ci appartengono e oggi sono economicamente falliti per i quali dovremmo avere il coraggio di dire – come suggerisce il professor Caserta – semplicemente “basta”. C’è spazio per muoverci e accettare il caos. C’è modo per riparlare di quelle “esperienze di scelta” come qualcosa di cui andare fieri e non di cui vergognarci (questo scimmiottare la iper-specializzazione-verticale all’americana è davvero un calcio negli stinchi ad ogni uomo europeo non-olandese di buona volontà). Dovremmo dimostrarci flessibili sempre anziché quando si tratta di tirare le somme dopo un anno andato male. A proposito di flessibilità: ad un certo punto la tua metafora parla di “apriamo i cancelli ed entriamo nell’organizzazione”. Mi verrebbe invece da dire, “abbattiamo i cancelli”. Perché il perimetro che quel cancello tracciava, al di là della partita iva, non c’è più in termini di luogo, di spazio, di tempo. Esiste l’organizzazione, ma il suo aspetto estetico (altro elemento che mi permetto caldamente di riconsiderare) è profondamente mutato e questo non può non comportare anche una mutazione nel profondo del suo scheletro.
Nicola, è un piacere ospitare una tua riflessione qui.
concordo con quello che dici, e anzi apri il tema ad un livello ancora più alto e di sistema molto opportuno.
Affronterò presto la lettura del tuo libro sul quale spero di potermi confrontare con te quanto prima.
In generale quello che vedo sono organizzazioni “bloccate”, sterili nei loro processi sia sociali che di business, esangui dal punto di vista delle energie. Ci vuole davvero un modello di pensiero più adatto, abilitante, dove rimettere in gioco le persone in modo nuovo.
Un modello che si fondi sulla reale collaborazione (o collavorazione :)).
A presto!
Ciao Alessandro, come sai condivido questa posizione.
Se esaminiamo le maggiori crisi aziendali degli ultimi anni possiamo vedere come siano spesso originate da una catena di decisioni errate prese dal CEO – sulla base della propria visione della realtà condizionata dalla propria esperienza.
Scavando nella storia aziendale si trova quasi sempre che la decisione corretta era stata proposta da qualcuno del management team che aveva interpretato in modo corretto i segnali del mercato, ma scartata da chi doveva prendere la decisione finale, il CEO, perché non rientrava nei suoi schemi mentali.
Il problema è proprio qui: individuare un nuovo modello decisionale che, senza eliminare la responsabilità – credo che le decisioni prese dai comitati siano per definizione le peggiori perché frutto di compromessi – permetta di costruire un processo decisionale che permetta di superare i classici schemi “io penso che”, “ho sempre fatto così”, “la mie esperienza mi suggerisce che”.
Grazie
Alessandro
Ciao Alessandro,
il tema che rilanci sulla decisione a livello di vertice è molto vero. Decisioni anche molto invasive sono prese con la logica dell’unica mappa possibile, quella del vertice. ma è un errore sia sul piano dell’efficacia che su quello che costruzione etica dell organizzazioni moderne. Queste necessitano di punti di osservazione ben più ampi per fronteggiare la complessità, ed inoltre la condivisione decisionale opera una costruzione di senso nell’organizzazione attraverso la conversazione fra le persone.
Operativamente anche io sono molto lontano dalla logica dei “comitati”, dio ce ne scampi. Ma più che la sede più o meno formale in cui esprimere modelli decisionali condivisi, si tratta del modo. come dico nel post le decisione operative possono essere ampiamente lasciate ai team nella dinamica della vita operativa. per le altre vale la “perizia” nel saper facilitare le conversazioni perché sappiano passare da dialogiche (fase in cui apriamo alla ricerca di contributi e nuove, oblique, possibilità e soluzioni) a dialettiche (momenti in cui procediamo verso la decisione comune). E’ sottovalutata questa dimensione, credendo che conversare sia semplice, connaturato, innato alla natura umane. Ma ciò che abbiamo nel dna è l’attitudine, non la perizia, e questa va promossa e fatta crescere. Capisci l’effetto sui sistemi organizzati e sui ruoli oggi meramente gerarchici in cui sono incastrate.
Grazie del tuo contributo alla discussione!