In queste calde giornate in solitudine (famiglia già in montagna) capita di scrivere sul divano di casa mentre tieni sotto la tv come compagna discreta. E capita anche che poi parta uno di quei film che avevi già visto mille volte, ma che ora attira la tua attenzione perché intercetta un tuo pensiero.
Il film è “Miracle on Ice” del 2004 con Kurt Russel che racconta della storia epica della squadra di Hockey degli stati uniti che nel 1980 riuscì a battere l’indistruttibile compagine sovietica alle olimpiadi invernali del 1980.
Il film, bene fatto, ti rapisce progressivamente, ma questa volta ho colto alcuni aspetti legati ad un tema organizzativo che mi è caro. Sostanzialmente quello del talento.
Sul talento si è già detto molto, e non mancano davvero piani più o meno magniloquenti di talent management nelle aziende oggi. Ma la domanda è: cosa stanno producendo nel lungo termine? La mia esperienza mi dice, non molto.
Le organizzazioni sono sistemi complessi e come tali difficili da imbrigliare in logiche a priori, anche quando sembrano mettere le persone al centro. Ma forse dipende dal fatto che questi piani di valorizzazioni dei talenti sono solo formalmente people based.
Lo schema è cira questo: individuo soggetto che allineato ai profili di ruoli richiesti mostra particolari doti che si palesano nei risultati. Questo soggetto viene innalzato a generale aspirazione a cui gli altri devono guardare per orientare la propria azione. In qualche caso, genero supporti incentivanti, premianti, formativi che dovrebbero trasformano “l’uomo medio” in talento.
Questo modello di sviluppo pone molti e articolati problemi:
- si ispira ad una idea di talento che è individuale. La centralità della persona è spinta sul piano della genetica del vincente, con toni spesso esasperati e retorici
- I talenti vengono poi vezzeggiati a dismisura con piani di crescita individuali, benefit e attenzioni che ne spengono alla lunga la motivazione a migliorare e crescere
- I risultati di questi pochi sono l’effetto di spinte personali unitamente a condizioni di contesto che possono ragionevolmente cambiare nel tempo. Affievolirsi per stanchezza, ridefinirsi per effetto di nuove sollecitazioni di contesto. Cosa resta all’organizzazione come sistema?
In questo senso la domanda è se il puntare su questi modelli individuali spinti non distolga dall’altra dimensione di talento che è quella organizzativa.
Così la scena qui di seguito pone la questione nei termini i cui io la preferisco
Il cuore della questione è posta dal secondo allenatore che si chiede come sia possibile aver lasciato fuori tutti i “migliori” giocatori statunitensi. La risposta è semplice: “non ci servono i migliori giocatori, ma quelli giusti”.
Si palesa un idea di organizzazione fondata sulla squadra, l’interazione ottimale fra i giocatori, la complementarietà che farà di quel team il miglior team.
Ora qualche sorriso lo strappa il fatto che l’allenatore (Herb Brooks) decida di impostare il team in una maniera che disattenda la retorica americana sul talento individuale che da solo può smuovere il mondo, e pratichi un modello più vicino a quello degli avversari sovietici, basato sul collettivo.
Ma davvero pare ragionevole, e non solo per i risultati ottenuti da quella squadra in un torneo ed in una finale diventati storici, ma perché sembra aver colto meglio di altri la dimensione profonda dell’evento organizzativo. Questo è l’integrazione di forse che si allineano continuamente come risposta a spinte esogene, e che trovano nella capacità umana di relazione il collante sostanziale per tenere insieme il team.
Diventa evidente che il talento da coltivare è quello organizzativo: la sua capacità di rispondere meglio di altri al mercato, alle richieste di innovazione continua, alla risoluzione di problemi in tempi stretti.
In questo senso l’esasperazione di modelli individuali nn può che minare questo mood necessario al sistema, demotivando coloro che non stanno nell’olimpo, creando spaccature fra i best performer e la massa che cortocircuita la comunicazione e lo scambio necessario alle organizzazioni moderne.
Ecco, ma come si fa a sollecitare il talento organizzativo? Alcuni spunti secondo me sono questi:
- sostituire piani di incentivazione/premio individuali con altri di tipo collettivo, di gruppo
- lanciare tematiche sfidanti su tutta l’organizzazione e chiamare alla collaborazione chiunque si senta di poterlo fare
- abilitare la conversazione permanente attraverso strumenti sia real che virtuali che permettano il continuo scambio di valore fra le persone
- abbandonare i modelli di valutazioni “algoritmici” fondati su competenze/prestazioni e lasciare che sia la community organizzativa a sancire il valore di colleghi più capaci, caso per caso
- ritualizzare il valore prodotto dalla community organizzativa in momenti di storytelling che ne traccino la storia e siano queste, e non i campioni, a tramandarne lo spirito di efficacia
- alimentare discussioni ampie e partecipate sul tema del “talento organizzativo” perché diventi un processo di sensemaking collettivo motivante e identitario
Perché ogni capo d’azienda, manager, titolare vuole vedere un epilogo come questo, o no (ultimi minuti della vera finale olimpica del 1980)?
7 risposte
Condivido e spero che questo punto di vista ci aiuti ad uscire dalla crisi.
Condivido lo spunto e le speranze di uscire dalla crisi 🙂
Pur non essendo un esperto provo a scrivere le mie perplessità mettendo a fattor comune altre considerazioni.
Non sono convinto che il ricorrere al parallelismo della squadra “aziendale” con lo sport possa essere sempre vincente, a volte si rischia di perdere il “grip” dando per scontato da parte dei partecipanti il “film” dove si vuole andare a parare.
Anche nello sport, nel calcio ad esempio, esistono disparità di trattamento, ci sono i talenti e c’è un “mister” che cerca di gestire bene le differenze e far funzionare la squadra , poi ci sono gli spettatori, l”audience, i giornalisti che puntano il dito sul talento o sull’errore del singolo, raramente si vede il commmento sulla squadra. E qui lo sport di squadra diventa individuale.
Peccato.
Ma l’articolo pone la gestione del talento su un piano diverso innalzandone il contenuto.
Si passa dal piano individuale al piano organizzativo.
Sul piano individuale credo la fermata sia sempre obbligatoria: esistono strumenti di valutazione delle prestazioni (dall’assessment generico fino all’assessment individuale tarato verso l’alto) che danno l’accesso al piano “superiore”, che ovviamente non possono non essere considerati.
Il piano organizzativo messo in evidenza è interessante, personalmente la vedo come una cosa nuova; si tratta di trovare la chiave giusta di innesco.
Ad esempio mi chiedo se le risorse chiave in aziende grandi si conoscono tra loro….o se lo immaginano soltanto riconoscendosi dai benefits; la reciproca conoscenza potrebbe essere un presupposto per iniziare un coinvolgimento mettendo a fattor comune una scelta aziendale che li coinvolge.
Dopodichè potrebbe nascere un processo di livello più elevato, che metta insieme queste persone a lavorare insieme su un progetto dedicato.
I punti di attenzione sono:
– dare responsabilità del risultato finale al gruppo
– dare serenità di lavoro eliminando possibili ansie da “prestazione” e competizioni tra i membri
Credo che la presenza e la professionalità del “coach” aziendale sul gruppo sia determinante e sono altrettanto convinto che questo step organizzativo possa essere vincente.
La nostra squadra avversaria si chiama “crisi”, che purtroppo non è solo di lavoro, ma spesso di idee, di innovazione, di mettersi in gioco e di confrontarsi.
Umberto, il film è stato per me uno spunto alla riflessione. Mi tengo lontano dalla retorica sulla vittoria, e sull\’eroismo. Ma la frase che cito nel post è stata un fulmine su cui fondare una riflessione più generale e pragmatica.
Il mio punto di vista è ancora più ampio. Pe me non solo i gruppi nei termini in cui dici vanno supportati, ma quest\’azione deve diventare patrimonio dell\’intera organizzazione attraverso modalità nelle quali l\’intera community aziendale è informata su quello che si sta facendo, potendo anche dare il proprio contributi.
Le figure professionali a supporto di questi processi sono, oltre al coach che però vedo in chiave di team, il community facilitator, e vari ruoli abilitativi, sia tecnici che organizzativi.
Ci sono già interessanti esperienze in questo senso che stanno mostrando le grandi potenzialità di questo approccio più olistico.
Grazie per i feedback!
Si può dire che il talento sia da molti anni la maledizione del Brasile calcistico: la squadra si deve costruire con i migliori giocatori, le migliori individualità, che però faticano a “fare squadra”. L’allenatore non ha quasi scelta perché escludere un giocatore top significa attirarsi critiche di pubblico, media e politici.
Pochi giorni fa un amico mi raccontava di un imprenditore illuminato che è riuscito a combinare magistralmente obiettivi individuali e di squadra: i suoi manager hanno sì bonus dipendenti dai risultati economici, ma questi bonus sono soggetti a moltiplicatori che derivano da obiettivi soft di crescita professionale e di coesione del team misurate attraverso specifici KPI.
Se non si raggiungono gli obiettivi di budget allora il moltiplicatore diventa vano, ma se si fa il budget ma si fallisce sugli obiettivi soft, viene azzerato il bonus.
Solo il mix di obiettivi economici e di crescita raggiunti garantisce il bonus.
Chiudo suggerendo questo video (un TED) sulla collaborazione, questa volta tra uomo e computer http://blog.ted.com/2012/09/06/how-a-human-computer-collaboration-uncovered-who-hacked-the-dalai-lamas-email/
Alessandro
In effetti Alessandro il tema è sicuramente come sollecitare al meglio un “moto” collettivo sugli obiettivi. Credo fermamente che il talento organizzativo sia da ricercare con molta più energia di quanto non si faccia ora, ed in questo senso un supporto alla collaboration come modalità corrente di relazione sia la via verso la realizzazione.
Certo i manager possono essere vincolati (e sarebbe meglio fosse sempre così) ad obiettivi legati alla crescita delle persone, ma questi devono essere meglio formati a fare questo: facilitare le relazioni, abilitare le persone alla collaborazione, spronarle a partecipare tutte a meglio.
Grazie del tuo intervento!