L’organizzazione è stata ampiamente analizzata nel corso del ‘900, e sono state prodotte molte chiavi di lettura per comprendere la natura. Se leggiamo quindi un buon compendio di letteratura sociologica dell’organizzazione (es: Storia del pensiero organizzativo, Bonazzi) troviamo come questa sia stata concepita, prima come un sistema di risorse (umane comprese) che andavano governate, coordinate, gestite. Poi come un sistema sociale di relazioni interpersonali a cui andava garantito dignità. Ma anche letta come un insieme di operazioni generanti una complessa struttura burocratica a cavallo fra etica e processo, o di un sistema cooperativo sempre alla ricerca di equilibrio fra le aspettative individuali e quelle generali.
Questi modelli di pensiero rappresentano solo alcune delle riflessioni che hanno cercato di cogliere la natura di questo particolare consesso fra persone. Ciò che però mi disorienta da sempre è osservare come la letteratura sul management di tutta questa euristica non se ne sia fatta niente in effetti.
I principi del primo e fondante modello di pensiero delle organizzazioni moderne, il taylorismo, rimangono come quadro di riferimento ineliminabile.
Gerarchia; centralismo decisionale (con poche attenuazioni); netta separazione fra enti strategici e strutture operative, o reparti deputati allo sviluppo ed altri alla mera esecuzione; semplificazione del fattore umano a risorsa dell’organizzazione.
Queste ed altre rappresentano le premesse indiscutibili alla base dei modelli organizzativi che si sono poi via via disegnati ed implementati nel corso del tempo. Ma per precisione vorrei dire che non si tratta di sola farina del sacco di Frederick Taylor, considerato che un suo contemporaneo, un sociologo “imponente” come Emile Durkheim, teorizzava la divisione del lavoro come strumento per governare strutture sociali complesse. Questo autore muoveva anch’esso da una premessa sostanziale: i sistemi posso essere sani o patologici, e questa seconda condizione va scongiurata attraverso un buon design funzionale degli enti, e degli attori in gioco nel sistema. D’altra parte un alveo di pensiero comune ai due autori com’era quello del positivismo non dava molti spazi ad i dee diverse dalla ricerca di una One best way.
Il design, l’architettura, la struttura quindi: senza questa vige una anarchia patologica. Ma soprattutto il fatto che questa struttura va disegnata ed implementata con la visione di essere la migliore possibile, e quindi stabile, duratura, fissa. E’ un a priori del sistema, che si progetta altrove da luogo in cui si opera ogni giorno, che necessita una competenza specialistica (il buon senso non lo è), che non è nella disponibilità delle persone.
Uscendo subito dalle sabbie mobili della discussione sulla ragionevolezza etica di questa impostazione di pensiero, mi domando più pragmaticamente se è efficace.
In che tipo di contesto viviamo?
Siamo in un quadro in cui il sistema sociale ed economico è relativamente stabile?
In cui nel rapporto con i propri stakeholder l’organizzazione sa prevedere ogni domanda e alla quale ha quindi già approntato una risposta organizzativa adeguata?
In cui l’innovazione è un processo che sta dentro i laboratori delle organizzazioni nei quali in totale intimità si “immagina” il prodotto del secolo?
In cui la dicotomia fra pensiero ed azione nell’organizzazione produce efficienza (questo forse) e massima efficacia?
Da uomo da azienda prima e da consulente ora, non posso fare a meno di prendere atto che se le persone nell’ambito dei propri ruoli, nell’affrontare i dilemmi quotidiani non trasgredissero, rilassassero, continuamente i principi dell’organizzazione che li ingloba, questa collasserebbe alla prima onda che arriva dall’esterno.
E’ impressionante vedere come le persone siano perfettamente in grado di fare interventi di micro-organizzazione capaci di adattare il Leviatano alle esigenze reali, rendendolo più flessibile e resiliente. Così com’è altrettanto impressionate vedere come queste operazioni di aggiustamento quando va bene non trovano lo spazio di risalire e diventare risorsa per la progettazione organizzativa, e quando va male vengano pesantemente censurate.
Ci sono nella mia memoria dei casi reali di interventi organizzativi nei quali questa distonia si è presentata come una martellata alla testa.
Da una parte un management addetto al process engineering che magnificava il proprio disegno organizzativo come soluzione a problemi precedenti di “libera interpretazione” da parte degli operativi, che ha prodotto, con la sua implementazione, un efficientamento mai visto prima. Dati alla mano!
Dall’altra l’analisi organizzativa (opero attraverso metodologie etnologiche: incontro con le persone, osservazione sul campo…) che dimostrava in modo lampante come quegli operativi aggiustavano continuamene le rigidità organizzative attraverso processi informali, producendo così quel efficientamento registrato dal management. Dati alla mano!
Insomma, ci sono sul campo due temi a mio avviso:
- la necessità di abbandonare in modo convinto l’effimera sicurezza offerta dalle One best way, con il loro portato di stabilità e rigidità, in quanto semplicemente non esiste una risposta organizzativa univoca e giusta. Soprattutto alla prova del tempo che scorre
- la responsabile presa d’atto da parte del management che la progettazione organizzativa non è cosa da specialisti, ma viene praticata quotidianamente da tutte le persone che operano risolvendo problemi, formulando idee, collaborando alla ricerca di efficacia operativa
In questo senso direi come nel titolo che l’organizzazione moderna ha due tratti sostanziali che ne descrivemmo il fenomeno:
- è in beta permanente
- ha nel crowdsourcing la propulsione per l’ adattamento continuo di cui ha bisogno
Si apre quindi un tema più ampio di sviluppo delle organizzazioni nella mani del management (CEO, HR, IT, in prima linea, ma non solo) sul come si orienta l’azione in organizzazioni così fatte.
Elenco qui di seguito alcune evocazioni:
- un cambiamento culturale forte, che addirittura inviti le persone a generare innovazione organizzativa a partire dalla propria attività quotidiana
- il superamento di modelli che formalizzano finemente ogni singolo task, con altri i quali consegnano mission e obiettivi di ruolo e poi lascino libere le persone di determinare i task più utili al raggiungimento di questi
- coerentemente a quanto sopra, l’inserimento nei percorsi formativi interni di tematiche legate alla visione organizzativa (ad oggi questa competenza è sollecitata fino al ruolo del capo, e comunque più come coordinamento o controllo che innovazione)
- il lancio di sistemi di premio che (dati alla mano!) registrino e facciamo emergere non solo la singola innovazione organizzativa riscontrata come utile, ma anche il modello di ruolo che ne sta alla base (persone che partecipano attivamente alla creazione dell’organizzazione)
- l’approntamento di tools che facilitino lo scambio trasversale fra le persone che possono così mettere in condivisione in tempo reale modalità organizzative opportune in modo easy e fast
In chiusura mi viene da dire che la maggiore dinamicità organizzativa necessaria non sia tanto da “generare”, quanto da “liberare”.
Secondo voi è possibile?
7 risposte
Sono d’accordo pienamente con la necessità di svecchiare alcune politiche e logiche aziendali. Cio che dici in “un cambiamento culturale forte, che addirittura inviti le persone a generare innovazione organizzativa a partire dalla propria attività quotidiana” è possibile ma prima si deve risolvere il fatto che ci sia una forte mancanza di meritocrazia. Io credo che nelle imprese italiane questo sia un freno alla creatività dei team. Grazie per lo spunto interessante!
Massimo, grazie per l’intervento.
Hai ragione che esiste un tema di valorizzazione degli apporti nelle organizzazioni, ma dal mio punto di vista si inquadra in quella distonia che cerco di descrivere nel post.
Finché le organizzazioni restano una “formalità” alle quali tu puoi solo aderire o no, è evidente che neanche un sistema di merito ben progettato funziona nel senso di dare impulso alla motivazione. Questo è il mio lavoro ogni giorno come consulente di sviluppo organizzativo, e ti assicuro che molte aziende sono strumentatissime, ed hanno anche delle intenzioni favorevoli in questo senso. Ma di fatto non funzionano più perchè in questa fase le persone sentono l’esigenza di “costruire” quel mondo organizzativo in cui sono immersi, dargli senso.
Per fare questo e ottenere tutti i benefici della partecipazione hai bisogno di cambiare le premesse con lui leggi l’organizzazione.
Intanto, appunto, non hai una organizzazione giusta che vale per sempre, ma anzi questa deve cambiare continuamente e adattarsi. Ma questo adattamento lo deve praticare chiunque in ragione delle stimolazioni che il mercato, i clienti, il sistema gli sottopone.
vanno ripensati i capi, che devono essere meno controllori e più abilitatori, facilitatori. Deve ripensarsi il management e diventare esso stesso un sollecitatore di collaborazione emergente, facendo partecipare le persone, mettendo a loro disposizione strumenti di collaborazione, comunicazione, utili a scambiare risorse e idee in modo ampio e trasversale. promuovendo una cultura della innovazione attraverso la conversazione organizzativa permamente.
Penso sia questa la direzione, considerando che fuori dalle organizzazioni questo sta già avvenendo.
Coa dici Massimo?
Grazie a te per il chiarimento. In base al quale mi metto in mezzo al cambio culturalmente per il modo di intendere l’organizzazione (infatti non l’avevo capita…;)).
Io scomoderei la parola coworking, giusto per intenderlo come una collaborazione estesa, coinvolgendo chi ha le competenze per risolvere i problemi in modo che si applichi la sussidiarietà. Chi è più vicino alla questione, chi la conosce meglio viene coinvolto. Costruendo ‘organizzazioni’ a progetto. Tutti saremmo professionisti e tutti invogliati ad essere competenti…utopia? cosa ne pensate?